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mercoledì 13 giugno 2012

Incontri di un cronista delle lettere Presentato il nuovo libro del gionalista letterario Giovanni Nardi

Una galleria di ricordi e di emozioni, di fuori scena raccontati da un “cronista delle lettere”. Icone della letteratura quali Jorge Amado, Tiziano Terzani, Roberto Ridolfi, Vargas Llosa, Enzo Biagi, Adonis, Karen Blixen, Tomas Tranströmer conosciuti nel corso della lunga carriera professionale di giornalista e rivelate nel loro genio e nella loro dimensione umana. Nobel, quasi Nobel, non Nobel. Incontri di un cronista delle lettere è il nuovo libro di Giovanni Nardi,  tra i più stimati giornalisti letterari, per molti anni responsabile centrale dei servizi culturali del quotidiano  La Nazione, dopo averne diretto, dal 1964 al 1982, la redazione pisana. Pubblicato da Felici editori, il volume è stato presentato (per la seconda volta a Pisa) nell’ambito delle manifestazioni del Giugno pisano da Marco Santagata, critico letterario e docente all’Università di Pisa, Silvia Panichi, assessore alla cultura del Comune di Pisa, Mauro Del Corso, presidente associazione amici dei musei,  Renzo Castelli, giornalista, e Athos Bigongiali, scrittore e giornalista.

Come scrive Athos Bigongiali nella prefazione è “un libro confidenziale, un diario intimo, un’amabile  confessione di vicende professionali e di vita vissuta a fianco di tanti libri e dei loro autori”. Per Bigongiali “ogni incontro è una sorpresa. E’ il regalo inaspettato di una curiosità, di un aneddoto, di un episodio particolare e inedito”. Incontri narrati non come “mere cronache” ma come occasioni “per ulteriori riflessioni, approfondimenti, ricerche e veri e propri esercizi di memoria” senza “mai un pettegolezzo però”. Leggendo il suo libro, Nardi ci dà un esempio di quel che dovrebbe essere il mestiere di cronista. Un esempio che troviamo sempre meno frequentemente sfogliando pagine di giornali molto piene di gossip, ma poco di informazione su fatti, vicende e personaggi. Sul tema del giornalismo Nardi racconta nel libro le sue conversazioni con Terzani che sosteneva: “è un mestiere, ma non come tanti. Non è una cosa che fai andando a lavorare alle 9 del mattino e uscendone alle 5 del pomeriggio; è un atteggiamento verso la vita che muove dalla curiosità e finisce per diventare servizio pubblico: è missione. E senza missione non è un mestiere da fare”. In Italia, invece, Terzani avverte “una contiguità, un ossequio, un servilismo nei confronti del potere che sono il contrario di quel concetto di ‘quarto potere’ che dovrebbe caratterizzare il lavoro del giornalista“. 

Secondo Santagata è significativo il sottotitolo del libro “incontri di un cronista delle lettere” perché “Nardi è stato il cronista principe di questa città e anche quando è passato alle pagine culturali non ha smesso di essere cronista, un cronista della cultura” che nel raccontare la storia degli altri “si astiene da giudizi di valore”. Così come “si astiene da graduatorie e classifiche” perché non si può “sezionare e incasellare la letteratura se la letteratura è vita”. I personaggi sono “quasi tutti accomunati da essere uomini di mondo”, girovaghi a volte esiliati per motivi politici ma mai “in una condizione di sradicamento”. Si può viaggiare per il mondo, “non avere una patria ma avere lo stesso un’idea di appartenenza”. Per Santagata la fedeltà ai luoghi “presuppone un’altra fedeltà che è ancora più forte, quella della memoria che rappresenta un tema “molto presente nel libro”. Attraverso le storie di quei personaggi Nardi “disegna un suo autoritratto”, si nasconde “dietro gli altri per dire quel che pensa”. Fa il cronista, mestiere sempre più spesso dimenticato.    
Enrico Stampacchia

lunedì 11 giugno 2012

L'arte e la scuola che non c'è. Un libro racconta l'esperienza di Ilario Luperini

Motivo profondo della comunicazione, ricerca intorno ai significati e ai valori delle cose, momentanee verità non vincolate alle esigenze strumentali del mercato e della moda. La riflessione sull’arte nelle sue molteplici manifestazioni e soprattutto sull’importanza dei valori vformativi dell’educazione artistica è al centro del nuovo libro di Ilario Luperini L’arte e la scuola che non c’è pubblicato da Edizioni Ets e presentato giovedì 7 giugno nella sala, gremita per l’occasione, del Consiglio dei Dodici in piazza dei Cavalieri da Lucia Tongiorgi Tomasi e Alberto Batisti con l’introduzione del presidente del consiglio comunale di Pisa, Titina Maccioni, del dirigente scolastico del Liceo “F. Russoli” di Pisa, Gabriella Giuliani, e con il saluto del sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, del presidente Fondazione Cavalieri di Santo Stefano, Umberto Ascani, del presidente dell’Associazione Amici dei musei e dei monumenti pisani, Mauro Del Corso.

Preside per ventitré anni, dal 1983 al 2006, dell’Istituto Statale d’Arte (oggi liceo) Russoli di Pisa, che quest’anno festeggia il cinquantesimo anniversario della sua fondazione, Luperini nel suo libro riesce molto bene a tenere insieme i risultati di questa esperienza con una riflessione sull’arte e sulle caratteristiche che dovrebbe avere un buon sistema formativo, quella scuola che in Italia non c’è, o almeno, ci piacerebbe poter dire, non c’è ancora.

Luperini particolarmente attento agli aspetti pedagogici, parte “da una constatazione: la prima componente che entra in causa nell’arte del disegno è la mano”. Sebbene vi siano “prove inconfutabili sul fatto che la nascita e lo sviluppo dell’intelligenza umana” abbiano avuto origine con la trasformazione degli arti superiori, “si è sempre ignorato il ruolo cognitivo che le attività della mano svolgono”. Per Luperini “sembra ormai accertato” che, nel processo di apprendimento, “il percorso verso l’autonomia critica parte” dal “sapere come”, quello operativo-performativo, e arriva al “sapere perché”, quello di una conoscenza di carattere esplicativo, attraverso il “sapere che”, ovvero quello di una conoscenza di tipo descrittivo.

Nel libro di Luperini si dimostra come “la questione dei valori formativi dell’educazione artistica” possa risolversi “solo a condizione che non sia mai scisso il momento storico-critico da quello operativo”. Una formazione incardinata sulla creatività, che “non deriva solo dall’intuito ma anche da conoscenze sistematiche” necessarie a gestire la progettualità, “non può che basarsi sull’attività produttiva, cioè sulla partecipazione attiva alla produzione culturale e non solo sulla semplice accettazione, seppur critica, di elaborazioni, ricerche e scoperte sviluppate da altri”. Potenzialmente la scuola artistica mette gli allievi in una condizione di immaginare, progettare, “trasformare un’idea in un oggetto”.

Luperini passa anche in rassegna le esperienze realizzate sul territorio. L’autore osserva che se i lavori dei ragazzi hanno dimostrato “estrema originalità di approccio e grande varietà di realizzazione”, il motivo dipende dal fatto “che durante tutto il percorso sono sempre stati invitati a far riferimento all’esperienza concreta, all’osservazione consapevole e analitica e a come la propria esperienza entrava in relazione” con quella degli altri “e con gli spazi e le realtà circostanti”.
 
“L’istituto d’arte Russoli – ha sottolineato Filippeschi – rappresenta un’esperienza di sperimentazione nazionale. Pisa è la città delle esperienze di riferimento nazionale nel sistema formativo. Un patrimonio costruito dall’impegno culturale e civico. Questo libro è un manuale dell’impegno: ci sono le idee e ci sono le esperienze”.
 Enrico Stampacchia

venerdì 8 giugno 2012

Saint Gobain 1889-1983: un secolo di industria, lavoro e società a Pisa nel libro di Renato Bacconi

La fabbrica, la città, il lavoro: la storia di un insediamento produttivo, ma anche la storia del contesto in cui si sviluppa. Renato Bacconi, già segretario della Camera del Lavoro di Pisa dal 1981 al 1990, una lunga carriera di militanza sindacale, ha pubblicato in questi giorni per la casa editrice della Biblioteca Serantini il libro Saint Gobain. Un secolo di industria, lavoro e società a Pisa (1889-1983) che sarà presentato venerdì 8 giugno alle ore 17.30 presso la CGIL-Camera del lavoro provinciale da Gianfranco Francese, Cgil, Michele Battini, Cristiana Torti e Mauro Stampacchia, dell’Università di Pisa, Paolo Ghezzi, vicesindaco del Comune di Pisa, oltre che dall’autore.
Presente a Pisa sin dall'ultimo decenio dell'Ottocento, dagli anni cioè del vero decollo industriale italiano, la Saint Gobain, la fabbrica per antonomasia della città, è una fabbrica francese, le cui origini, seppur con un nome diverso, risalgono al XVII secolo. L’insediamento produttivo porta a Pisa metodi di lavoro in grado di superare quello del “maestro soffiatore”, si avvale di tecnologie all’avanguardia e cresce rapidamente nel suo insediamento di Porta a Mare diventando un luogo essenziale della industrializzazione pisana.
Pisa è città sede, come scrive Bacconi, di "un composito e esteso universo sociale formato sia dal popolo dei mille mestieri, instabili e precari, insediato nelle aree più degradate del centro storico, sia da una larga parte degli strati artigianali e dei nascenti nuclei di lavoratori di fabbrica". Storici come Lorenzo Gestri, Umberto Sereni, Alessandro Marianelli, Franco Bertolucci hanno tracciato il quadro: anarchici e repubblicani che esprimono il naturale ribellismo, profeti del "liberato mondo", socialisti che lavorano alla organizzazione del lavoro e del sindacato. Bacconi, scrivendo la storia di un secolo, ha il pregio di presentare la materia in forma divulgativa, ma non priva di spunti analitici importanti. L’autore indaga a fondo tutti i contesti nei quali si situa la vicenda della Saint Gobain, raccontando insieme la storia di una industria, e di una città, del mondo del lavoro e della società cittadina, con un contributo prezioso allo studio della storia di Pisa nel Novecento.
Scrive nella prefazione Maurizio Antonioli: "raccontare la storia della Saint Gobain a Pisa significa ripercorrere le tappe principali dello sviluppo industriale italiano e della lotte per la conquista dei diritti dei lavoratori". Renato Bacconi è stato protagonista e testimone delle vertenze sindacali della Saint Gobain del secondo dopoguerra, ma non scrive solo nella modalità della memoria, abbraccia piuttosto gli strumenti della ricerca storiografica, esamina documenti e archivi, racconta vicende e passaggi essenziali, costruisce un ampio ed efficace affresco. La sua partecipazione al mondo del sindacato e del lavoro dà alla sua narrazione la capacità di tratteggiare sentimenti e comportamenti del mondo operaio, dall'interno di quel mondo.

lunedì 4 giugno 2012

Officine della follia Il libro sul manicomio di Volterra

Addestrare al lavoro ripetitivo, ammansire, ma spesso anche assopire ogni istinto vitale rendendo incapaci di opporre resistenza ai voleri altrui, “di esprimere i propri malesseri attraverso parole, suoni o urla”. L’obiettivo della “progettazione di un uomo nuovo” propria dei fondatori del  moderno paradigma psichiatrico e dell’istituzione manicomiale “veniva in parte raggiunto”. Un uomo nuovo, un uomo “istituzionalizzato” che era “però spesso ridotto ad un simulacro di se stesso”. Docile, ma di una “docilità che non è neppure in grado di esprimere valori positivi”, di una “docilità che equivale al non essere”.
Il libro Le officine della follia – Il frenocomio di Volterra (1888-1978) di Vinzia Fiorino pubblicato da Edizioni Ets sarà presentato lunedì 4 giugno alle ore 17.30 presso la sala consiliare dell’Amministrazione provinciale in piazza Vittorio Emanuele da Silvia Pagnin, assessore alla Cultura della Provincia di Pisa, Massimiliano Casalini, consigliere provinciale, Roberto Cappuccio, psichiatra, psicoterapeuta e con la partecipazione della stessa autrice.
Il volume non si limita a denunciare le finalità di una logica manicomiale più interessata alla custodia, e a mantenere alto il numero dei degenti, che alla cura e al reinserimento. Non è la fotografia di una situazione statica. Ripercorre i novant’anni di storia del manicomio di Volterra e ricostruisce in modo dettagliato le evoluzioni (e anche talora le involuzioni) e le caratteristiche originali che l’hanno contraddistinto, dalla sua nascita come cronicario, alle esperienze d’avanguardia negli ultimi anni precedenti alla dismissione. Frutto di una ricerca accurata, proposta dall’autrice alla Provincia di Pisa e pubblicato con il contributo della stessa, il libro descrive molto bene l’esperienza della struttura manicomiale di Volterra in rapporto anche ai modelli culturali che l’hanno legittimata, ma anche le storie, i singoli casi umani di chi vi ha abitato.
L’ergoterapia, la terapia del lavoro  ha contraddistinto la storia del manicomio di Volterra.
Introdotta da Luigi Scabia, direttore del frenocomio per trentaquattro anni a partire dal 1900, la terapia del lavoro prevedeva che all’interno del maniconio-villaggio open door, “una sorta di piccola città indipendente fondata sul contributo lavorativo di tutti” dove poter girare liberamente “nei viali così come nelle strade della cittadina volterrana”, si coltivasse, si fabbricasse, si producesse. Il lavoro è parte del progetto terapeutico e le esperienze lavorative si estenderanno anche al di fuori della struttura (basti pensare agli scavi che negli anni Cinquanta “porteranno alla luce l’antico teatro romano di Volterra”).  
Il termine “officine”, significativamente inserito nel titolo dall’autrice, ha, però, anche un altro significato metaforico. L’obiettivo per incrementare la popolazione, che nel 1940 raggiungerà il suo massimo con 4547 presenze, era quello “di accaparrarsi fette sempre più importanti di un incredibile mercato, quello dei soggetti in esubero dei vari manicomi italiani”.
Una politica fatta di convenzioni con il maggior numero di Province italiane determinerà l’afflusso di pazienti da aree lontane. A prevalere saranno le ragioni istituzionali prima ancora di quelle determinate dal dibattito scientifico dell’epoca. Se in precedenza l’esigenza dei legami affettivi e delle relazioni tra le famiglie e le istituzioni manicomiali avevano primeggiato, “per i soggetti che giunsero a Volterra in seguito a convenzioni” le mediazioni con le famiglie sarebbero state molto esigue o del tutto inesistenti.
Tuttavia dopo la lunga direzione Scabia, negli anni Trenta le esperienze terapeutiche successive si allineeranno con quelle in uso sul resto del territorio nazionale durante il periodo fascista: malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, lobotomia. Nel secondo dopoguerra l’ergoterapia continuerà ad essere praticata, “ma subirà un notevole declassamento: da pratica terapeutica principale” sarà indicata “solo nella fase precedente alle dimissioni, quindi come una sorta di terapia-cuscinetto che prelude il reinserimento del paziente nella vita civile”. Oltre a quelle scioccanti, già in auge, le nuove vere terapie saranno quelle farmacologiche.
Le evoluzioni più significative si affermeranno a partire dagli anni Sessanta quando inizierà ad emergere il tema del reinserimento dell’ex degente, ma sarà solo nel decennio successivo che muterà completamente la concezione stessa del malato: “i quadri diagnostici cominciavano a restare sullo sfondo , mentre le indagini psicologiche, le relazioni familiari, le condizioni materiali acquistavano un inedito rilievo”. Considerare i ricoverati non più oggetti di controllo, ma soggetti di relazioni sociali e di bisogni “ha significato sovvertire lo spazio manicomiale”.
La stessa ergoterapia iniziò ad essere respinta perché non era concepita come strumento dell’affermazione della propria personalità, un mezzo per fare apprezzare il proprio talento.
Il lavoro per il lavoro, invece, contribuisce solo ad accentuare un processo di disgregazione e a ridurre gli stessi internati, ancora una volta, a informe massa operativa. 
“Il riconoscimento del malato come soggetto di autodeterminazione è stata la più importante delle rivendicazioni portate avanti dal movimento che in qualche modo faceva riferimento a Franco Basaglia” e che nel 1975, tre anni prima dell’approvazione della legge 180, porterà anche a Volterra alla trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica. 
Enrico Stampacchia 

Fonte: http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=10621