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martedì 18 dicembre 2012

Tra foce e pineta: le immagini che raccontano il litorale

Raccontare non solo con le parole, raccontare con le immagini fotografiche. Immagini di Marina, immagini di Tirrenia, immagini di volti e di paesaggi dal litorale pisano, immagini soprattutto del protagonista principale: il mare. Con le sessanta fotografie di Nicola Ughi, scattate per metà in inverno e per l'altra in estate, le didascalie e i commenti di Marco Malvaldi e i venti ritratti sulle memorie e sulla vita di alcuni protagonisti attraverso le interviste "salmastre" di Cristina Barsantini è da poche settimane sugli scaffali delle librerie il nuovo volume Tra foce e pineta, Volti, paesaggi e parole dal litorale pisano pubblicato da Edizioni ETS.
A presentare il libro fotografico giovedì 20 dicembre alle ore 18. 30 presso la saletta delle Edizioni ETS in Piazza Carrara (il programma), Marco Malvaldi, Nicola Ughi e Cristina Barsantini. Malvaldi eseguirà un reading proiettando le immagini del litorale e intratterà con commenti più o meno improvvisati arricchendo ulteriormente le esperienze di questo volume. La mostra delle fotografie di Nicola Ughi, raccolte nel volume, proseguirà alla Saletta Allegrini fino al 15 gennaio 2013 e all'Angolo di Borgo fino al 30 gennaio. Spaccati di storie di chi ha contribuito, attraverso anche l'esercizio della propria attività lavorativa, alla vita quotidiana del litorale pisano, dal dopoguerra in poi, resi al lettore con interviste che per Barsantini "sono scatti verbali nei quali si incrociano i confini tra memoria e attesa, tangibile e intangibile, visione e apparizione, fatti e pensieri". Ritratti in bianco e nero che "acquistano la parola e, con le loro storie, disegnano l'immagine del litorale pisano alle sue origini". Testimonianze di storia condivisa ma anche di personali punti di vista, "testimonianze preziose perché perdere il passato significa perdere il futuro". Si va dall'insegnante di lettere Rossana Bottai alla titolare del negozio di abbigliamento "Marcello" Franca Saviozzi, dal titolare della pasticceria Ranieri Gori a quello del negozio di ferramenta Franco Puccini, dal titolare della falegnameria Giorgio Cardini a quello del ristorante l'Arsella Marco Lodovichi, dal capostazione del trammino Alfredo Bargagna al titolare del ristorante "Janett" Anna Rosa Nerini, dal grafico Carlo Grassini al titolare del ristorante "Gino" Raffaello Iacomelli, dal medico Virgilio Cheppi al titolare del distributore di benzina sulla Pisorno Paolo Iacopozzi, dalla guardia forestale Franco Duchini al titolare del bagno Lido Manlio Giannessi, dal titolare dell'officina auto Giuseppe Passerotti a quella del panificio Mary Niccolai, dal titolare della farmacia Marcello Caroti Ghelli al marinese doc (il bisnonno è stato il fondatore di Marina) Sandro Ceccherini, dall'ex consigliera comunale Enrica Barsantini al pugile Piero Del Papa.
Le foto predisposte a coppia permettono di confontare le emozioni che rimanda la mutevolezza di un territorio diviso dalle due grandi stagioni: su una pagina l'immagine invernale sull'altra affiancata quella estiva. "Troverete in queste coppie - sottolinea Nicola Ughi - il tentativo di confrontare paesaggi simili o scorci facilmente affiancabili per vedute o per concetto". Tuttavia il grande collante che unisce un territorio diviso è il protagonista di questo libro: il mare. "L'acqua che frange sulla spiaggia di sassi bianchi ha la stessa limpidezza sia con il sole caldo di giugno che con la neve di gennaio, e nello stesso identico modo, vorresti immergerti per farne parte. Le mie fotografie vorrebbero trasmettere queste emozioni".
"Per quanto mi riguarda – precisa Marco Malvaldi - questo libro è stato fatto cercando di essere obiettivi, e a volte severi: notando, ironizzando, rimproverando. Come si fa alle persone di talento a cui si vuol bene, perché siamo certi che possono fare meglio. Il mare è un talento che pochi posti hanno, ma il talento da solo non può bastare". Per Malvaldi "il mare per una cittadina è una specie di confine, sia fisico che metaforico: non puoi andare oltre a qui nel costruire, nel razionalizzare e nell'affannarti. Dalla spiaggia in poi devi adattarti alle regole della natura, diventare un po' meno homo faber e andare un po' più sul neanderthaliano o sull'animalesco".

Enrico Stampacchia

martedì 11 dicembre 2012

“Le epigrafi commemorative di Pisa”, il libro di Maurizio Villani.



Una ricerca che non ha uguali, un materiale in grado di riscrivere la storia di Pisa". Non più solo oggetto di sguardi distratti, ma censite con una ricerca certosina in ogni angolo, piazza e strada del territorio del Comune di Pisa. Trecentocinquanta epigrafi, ovvero tutte le lapidi e le iscrizioni visibili dalla pubblica strada, incluse quelle di porticati e interni di palazzi pubblici, sono state l'oggetto di una ricerca, di una mappatura che, quando ne fu informato dall'autore, il noto studioso di sociologia e del fenomeno religioso nonché appassionato cultore della storia di Pisa monsignor Silvano Burgalassi non esitò a definire ineguagliabile. Un materiale che oggi l'autore di quell'immenso lavoro, Maurizio Villani, ha reso disponibile a tutti, dallo storico all'appassionato della storia di Pisa, trasformandolo nelle pagine del libro Le epigrafi commemorative di Pisa, frammenti di storia scolpiti sulle case, sulle chiese e sui monumenti sparsi per le vie della città pubblicato in questi giorni da Felici Editore.
A presentare il nuovo volume, venerdì 7 dicembre, coordinati dal giornalista Renzo Castelli, il sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, il presidente della Provincia di Pisa, Andrea Pieroni, l'arcivescovo all'Arcidiocesi di Pisa, Giovanni Paolo Benotto,  l'assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Pisa, Andrea Serfogli, lo storico Alberto Zampieri e l'autore Maurizio Villani. Nel corso della ricerca sul territorio che portò alla pubblicazione del suo precedente volume Le madonne di Pisa, Villani preparava già la sua pubblicazione successiva. "Ogni qual volta trovavo una lapide – afferma l'autore  - la fotografavo e ne annotavo l'ubicazione, ma questo interesse viene da più lontano". Fin da bambino Villani prima ancora che imparasse a leggere notava quelle "strane pietre" e fantasticava  sulle storie che gli avrebbero potuto raccontare. Una passione che durò negli anni, fin dopo la laurea in ingegneria. "Fu allora – precisa Villani - che decisi di raccogliere tutto il materiale esistente in letteratura, che mi sarebbe servito dopo la ricerca capillare, strada per strada sul territorio". Poi durante il censimento territoriale cercò di non tralasciare nessuna lapide antica o moderna controllando tutte le vie del Comune di Pisa e organizzando l'archivio secondo una metodologia scientifica, sicura.  
Nel libro le epigrafi sono state ordinate cronologicamente secondo l'anno in cui si è svolto il fatto commemorato e suddivise in sette capitoli corrispondenti ad altrettanti periodi storici:  33 lapidi per il capitolo su "Pisa Repubblica marinara (1000 – 1313)", 10 per quello su "Epoca delle signorie (1314 – 1405)", 62 per il capitolo su "Governo mediceo (1406 – 1736)", 56 per quello su "Governo lorenese (1737 -1859)", 81  per il capitolo che spazia "Dall'Unità d'Italia alla fine della prima guerra mondiale (1860 – 1918)", 55 per quello su "Il primo dopoguerra e la seconda guerra mondiale (1919 – 1945)", 53 per quello su "Il secondo dopoguerra e il periodo contemporaneo (1946-2012)". Per ogni lapide o iscrizione censita è stata dedicata una scheda composta dall'anno in cui si è svolto il fatto, da un approfondimento sull'evento commemorato, da riferimenti bibliografici, dalla foto di dettaglio della lapide e, talvolta, del contesto in cui è localizzata, dalla trascrizione con l'indicazione della lingua e dalla traduzione in caso di latino o spagnolo.
Una traduzione assolutamente necessaria anche perché,  come ha sottolineato  l'arcivescovo Benotto, "fino ad un certo periodo le lapidi sono tutte scritte in latino e il latino non lo sa più nessuno". Un elemento che contribuisce a rendere "questa raccolta molto preziosa  anche sul piano dello studio". Inoltre molte lapidi, come quelle nel Campo Santo "sono difficilmente leggibili – ha proseguito l'arcivescovo di Pisa - e comunque anche se sono leggibili non sono interpretabili". Da questo libro "viene fuori una bella fetta di storia ecclesiale di Pisa". Per l'arcivescovo di Pisa "lapidi e iscrizioni rimandano a quel desiderio che ognuno si porta dentro di voler come "sopravvivere" allo scorrere inesorabile del tempo che progressivamente assorbe e lava via i segni del nostro passaggio su questa terra. E per questo ci si affida alla pietra, al marmo e al bronzo, alla ricerca di qualcosa che non solo registri ma trasmetta ai posteri la memoria di ciò che è avvenuto in un tempo che si allontana sempre di più, permettendo così di capire, attraverso i secoli, il perché e il come certi fatti si sono svolti, impedendo agli stessi di dileguarsi nell'ombra".
Per il presidente della Provincia Andrea Pieroni "vi è una perdita di identità collettiva nel momento in cui non ci ritroviamo più disponibili a sostare nella memoria, ad abitare la nostra storia attraverso lo scorrere degli eventi raccolti in frasi, dediche, sentenze, lapidi, monumenti". Si tratta di un libro che "ha anche un valore didattico, oltre a quello informativo e divulgativo, e dovrebbe essere adottato nelle scuole". Un'opera che per l'assessore Andrea Serfogli "rappresenta anche una guida per la conoscenza e la visita della città" oltre che un utile strumento "per far sì che queste lapidi possano essere conservate e restaurate".  Per il sindaco Marco Filippeschi è un libro sorprendente, "un materiale vivo" capace di "rivelarci un aspetto di Pisa che ci è quotidianamente sotto gli occhi e che può essere distrattamente osservato come qualcosa a cui siamo abituati. Può aiutarci ad avere anche un modo più lento, più meditativo di vivere la città. Ma può anche essere letto come un avvincente repertorio di storia e di arte in un arco di storia pisana che va dalla fondazione del Duomo all'inaugurazione, il 20 ottobre 2011, di corso Italia rinnovata". 
Enrico Stampacchia

Fonte:  http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=12413

giovedì 22 novembre 2012

Il fiume si rise Ovvero quando Leonardo Da Vinci tentò di deviare il corso dell'Arno...e clamorosamente fallì. Intervista all'autore del libro

“...ma il fiume si rise di chi gli volea dar legge e seguitò a correr nel suo grand’alveo come prima.”   L'oggetto del "riso" narrato nel XVIII secolo da Antonio Muratori fu nientemeno che il grande Leonardo. Sì, proprio lui che tra i tanti meriti annoverò, suo malgrado, quello di allietare i pisani anche nello scherno. I tentativi di sconfiggere militarmente Pisa che si era ribellata al dominio di Firenze stavano fallendo. Così i fiorentini ne provarono di tutte anche quella di lasciare i pisani all'asciutto, senza il loro fiume. Il progetto di deviare  il corso dell'Arno da Riglione verso Stagno fu commissionato a Leonardo Da Vinci che, pur predisponendolo nei minimi dettagli, sbagliò i calcoli, fallì miseramente e il fiume "seguitò a scorrere nel suo grand'alveo come prima". Tuttavia da oggi "il fiume si rise" non è più solo una dotta citazione delle cronache settecentesche ma anche il titolo del  nuovo romanzo di Sergio Costanzo che ha come sottofondo storico proprio la vicenda nata in seguito alla discesa in Italia, nel 1494, del re di Francia Carlo VIII: la ribellione dei pisani al novantennale dominio fiorentino. Una delle prime guerre di popolo in cui per un quindicennio a fronteggiare un esercito di mercenari c'erano cittadini umili, i pochi pisani rimasti in città dopo quasi novant'anni di dominazione fiorentina. Una ricostruzione storica effettuata sulla base di cinque diversi documenti ricomposti come pezzi di un puzzle dall'autore. Il libro uscirà sugli scaffali delle librerie in occasione del Pisa Book Festival.
A presentare venerdì 23 novembre alle ore 18.30 presso la Sala Fermi del Pisa Book Festival il nuovo romanzo storico di Sergio Costanzo Il fiume si rise pubblicato da Linee Infinite Edizioni, oltre all'autore, il Sindaco di Pisa Marco Flippeschi e Renzo Zucchini. Un libro ricco di descrizioni della Pisa dell'epoca: urbanistica, vita quotidiana, storia locale e non solo fanno da sfondo alle vicende della famiglia del protagonista Clemente Biccoli e rappresentano anche un efficace strumento di conoscenza in quanto gli episodi storici si ricordano meglio se raccontati attraverso le vicende umane. Un grande regalo alla città di Pisa di cui parliamo con l'autore Sergio Costanzo che sta gia lavorando ad un nuovo romanzo storico sulla vita di Vincenzo Galilei, il padre di Galileo.

Dopo il successo di Io Busketo il romanzo sulla costruzione della cattedrale di Pisa un secondo romanzo storico su Pisa. Si passa però dal periodo di massimo splendore a quello di massima miseria. Un contrasto estremo, ma è una scelta voluta?No, l'intenzione non era quella di passare dalle stelle alle stalle. Ho voluto indagare e far luce su un periodo che io per primo conoscevo poco. E' stato un atto di rispetto nei confronti di Pisa. Tra l'altro ho cercato anche di capire il motivo per cui si nasce così antifiorentini.

Ragioni storiche soprattutto?
Sì e molto radicate. Pisa dopo essere stata conquistata, non militarmente ma con l'inganno, nel 1406 da Firenze subì un secolo e mezzo di barbarie e sopraffazioni. I fiorentini non l'avevano conquistata per dominarla economicamente, non erano interessati alle sue potenzialità ma solo a farla fuori, ad annientarla. Il loro primo provvedimento fu l'abolizione del diritto di approdo al porto per far morire la città. Sarà solo negli anni Sessanta del Cinquecento con il Granduca Cosimo I e la fondazione dell'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano che ci sarà una radicale inversione di tendenza. Così in occasione  della discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII nel 1494 per reclamare il regno di Napoli, osteggiata da Firenze, i pisani si ribellarono e iniziò una guerra d'assedio che durò quindici anni.

E' qui che inizia la vicenda narrativa del tuo romanzo che in fondo è anche un'occasione per  aprire una finestra sulla storia, con largo spazio a descrizioni sulla topografia, sull'urbanistica e più in generale sulla vita a Pisa in quel periodo...
Quello è stato un periodo di passaggio. L'azzeramento delle case torri stava già dando a Pisa l'aspetto odierno. La dominazione fiorentina non aveva lasciato intatta la struttura della città nel periodo di massimo splendore.  Nella narrazione ci sono rimandi a quello che i fiorentini hanno fatto nel corso della dominazione. A volte erano gli stessi pisani esuli che incendiavano le proprie case per non dover pagare le tasse a Firenze.  

La tua scelta è però, come già in Io Busketo, anche un modo per valorizzare la storia delle persone più umili e non solo quella dei grandi personaggi...
Nella storia sarebbe giusto parlare di quei milioni di persone di cui non si parla mai. Quando ci fu bisogno il popolo si mosse e divenne protagonista. Con questo libro volevo scrivere un libro pisano e partigiano. Anche da questo punto di vista non è casuale la scelta del contesto storico. E' proprio in quello  del mio nuovo romanzo che è preminente l'importanza degli umili. Con la dominazione fiorentina, che ha fatto emigrare tutte le grandi famiglie, se non fossero rimaste le famiglie povere Pisa avrebbe fatto la fine di Cartagine. Non ci sarebbe stata più storia pisana. Anche nella storia di Busketo c'è tanta storia di popolo ma è nella sofferenza che si misura la forza di un popolo.   

Il contrasto che hai messo in evidenza è anche quello della lotta tra un esercito fiorentino di mercenari ed uno di popolo. Così facendo si può dire che hai voluto inquadrare questa guerra tra pisani e fiorentini in un contesto che va ben al di là dei confini di una storia eminentemente locale? Sì, basti pensare che Niccolò Macchiavelli, il responsabile militare della guerra contro Pisa, in un carteggio con un amico esprime un giudizio di apprezzamento nei confronti dei pisani in quanto hanno capito come sia importante per la difesa l'esistenza di un esercito di popolo. Così colui che è considerato il padre fondatore dell'esercito italiano, sposa talmente tanto l'organizzazione dei pisani che proprio su tale modello riesce a creare battaglioni di coscrizioni. 

C'è un'altra differenza rispetto al tuo romanzo precedente: l'unico documento storico che avevi a disposizione era la lapide sepolcrale nel Duomo, mentre in questo caso hai fatto emergere documenti poco conosciuti. Tra questi ci sono stati anche degli inediti?
I documenti non erano inediti, ma molto frammentari perché su di essi non era mai stato fatto un lavoro. Per me è stato come ricomporre tanti pezzi di un puzzle. La storia di queste vicende non si conoscevano molto. Per fortuna sul periodo della guerra tra e pisani fiorentini ho potuto lavorare su cinque documenti.

Quali?
I due più importanti sono le cronache  di Giovanni Portoveneri e quelle di Carlo Vaglienti, un commerciante di origine fiorentine. Vaglienti non capisce i motivi di questa guerra, per le sue origini subisce dei torti e racconta gli avvenimenti con giudizi negativi. Fortunatamente per motivi sconosciuti ci ha lasciato giorno per giorno tracce di quel che è successo. Ci sono poi i giornali degli accampamenti militari che documentano tutti gli scontri e che sono quello fiorentino, quello veneziano e le lettere di Macchiavelli. Nel romanzo poi lo stesso episodio viene rivisto interpretato e riproposto in cinque modi diversi.

Contrasti e diversi punti di vista sono una chiave di lettura fondamentale nel tuo romanzo. Perché? 
Quando scrivi un romanzo storico ti riferisci soprattutto alla relazione umana. In questo romanzo volevo descrivere i sovvertimenti delle regole durante il tempo di guerra. E' quindi un libro che parla di contrasti, di spiriti combattuti tra il senso del dovere e l'aspirazione ad una vita normale. Anche all'interno della famiglia i contrasti sono all'ennesima potenza.

E della Pisa di oggi cosa ne pensi? Vedi qualche miglioramento? Si sta iniziando a riappropriare anche della sua identità storica?Si sta andando verso una tendenza a riscoprire le identità e questo avviene anche grazie a opere in via di realizzazione come la risistemazione dell'antica cinta muraria. Pisa, però, continua a soffrire di una mentalità che non ama il rischio. Anche tra i cittadini c'è un forte senso di deresponsabilizzazione che probabilmente deriva dal lungo periodo di sudditanza al dominio fiorentino. Siamo seduti su un tesoro che però è un baule chiuso. La stessa piazza del Duomo non è abbastanza valorizzata. Cosa fanno i pisani per quella piazza? Si tratta di avere più spirito di iniziativa. Io  e Silvia Piccini, guida turistica dell'Opera del Duomo, abbiamo organizzato per domenica prossima un esperimento dal titolo "Io Busketo e la mia cattedrale". Si tratta di una visita alla cattedrale preceduta da un escursus sulla piazza. L'appuntamento è alle 15.30 davanti al museo delle Sinopie.  

Parlaci dei tuoi progetti di scrittura per il futuro: hai qualche altro romanzo storico in cantiere?
Sì, sto già scrivendo un romanzo sulla storia di Vincenzo Galilei, il padre di Galileo. Volevo scrivere qualcosa su Galileo bambino, così ho deciso di dedicare il libro al padre che fu un grande musicista e un grande scienziato. Nello scrivere il libro il buon temperamento del clavicembalo Vincenzo Galilei ha scoperto l'uso dei logaritmi tre secoli prima della loro evidenziazione sul piano matematico. Questo nuovo libro nasce anche da una mia passione per la musica classica. L'idea è comunque quella di raccontare più storie pisane prendendo spunto da figure storiche importanti ma poco conosciute. Sottolineo il termine raccontare perché abbiamo perso quella capacità di affabulare e di ascoltare, magari anche attraverso quella trasmissione orale che facevano gli anziani. Il ritmo lento nella narrazione storica può ridonare questo tipo di conoscenza. E' più amabile e se l'episodio si racconta attraverso le vicende umane ti colpisce di più.
Enrico Stampacchia
Fonte:  http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=12173

domenica 18 novembre 2012

Giallo Pisano 3. Otto scrittori pisani in cerca del colpevole

Pisa 18 novembre 2012 - Scrittori di Pisa, scrittori su Pisa. Anche questa volta a far da protagonista è il territorio. A partire dal titolo: "pisano" ma anche "giallo" come il colore usato comunemente per dipingere gli edifici del centro storico cittadino e come la struttura narrativa appartenente a quel determinato genere letterario. Giunta al suo terzo volume dopo il successo di quelli pubblicati nel 2005 e nel 2006, la nuova antologia di "Giallo pisano" definisce già nel titolo quel che i suoi otto racconti, scritti da altrettanti autori, hanno in comune: la struttura narrativa e il territorio di ambientazione delle storie, ma anche quello di nascita (con un unica eccezione) e di vita degli autori, ovvero la città di Pisa e la sua provincia. A presentare Giallo pisano 3, a cura di Renzo Zucchini e pubblicato da Felici editori, sabato 10 novembre presso il centro Sms gli autori, presenti quasi al completo, e il Sindaco di Pisa Marco Filippeschi.
"La serie – precisa Zucchini - dovrebbe essere trasformata in una pubblicazione a cadenza annuale". Per il 2013 è già prevista un quarta antologia. Ma "per Giallo pisano 3 – afferma il curatore - i compagni di squadra che si sono offerti  provengono quasi tutti dal salotto letterario organizzato, condotto e ospitato da Mariangela Casarosa  e in parte dalla precedente esperienza di Giallo pisano 2". Fu proprio da un'idea di Zucchini,  l'unico autore ad essere presente in tutte e tre i volumi, che nacque, a partire dal primo libro, l'originale antologia di racconti gialli e noir ambientati a Pisa e dintorni. Pubblicati da Felici editore nel 2005, i primi cinque racconti furono scritti da Paola Alberti, Graziano Braschi, Divier Nelli, Riccardo Parigi e Massimo Sozzi oltre che dall'ideatore Renzo Zucchini.
Tuttavia ai racconti del primo volume, Giallo pisano, che spaziavano da una truffa agricola ambientata all'inizio dello scorso secolo nelle campagne pisane ad un thriller svolto in un solo giorno durante la piena dell’Arno, dalle leggende sull’immortalità dei Templari custodite in Duomo, alla ricerca della Pietra filosofale da parte dei nemici di Galilei, fino agli spinelli fumati sui lungarni pisani da un testimone di un delitto, se ne aggiunsero solo l'anno successivo altri dodici. Il successo del primo libro determinò una seconda pubblicazione, sempre di Felici editore, Giallo  pisano 2. Oltre a Renzo Zucchini altri undici scrittori, Lara Danero, Ubaldo De Robertis, Guido Genovesi, Alessandro Giuntini, Alessandro Marcelli, Andrea Nacci, Pierantonio Pardi, Paola Pisani Paganelli, Alessandro Scarpellini, Paolo Terreni, Roberto Volpi pubblicarono altrettanti racconti gialli e noir dove a fare da protagonista è l'intero territorio della provincia di Pisa, da Marina di Pisa a Ponsacco, da Pisa a Pontedera, dal mare al Monte Pisano, da Calci a Volterra.
In questa pubblicazione di Giallo pisano 3, dove gli scenari dei racconti spaziano in senso geografico da Marina a Volterra e in senso temporale dal Medioevo a oggi, il legame con il precedente volume emerge subito dal primo racconto "Zorro e l'uomo della sabbia" di Cristiana Bruni, un sequel autorizzato. Una delle protagoniste, la "mantide" Giulia Nencini, è lo stesso personaggio già presente nel racconto di Pierantonio Pardi "E caddi come corpo morto cade" pubblicato nella precedente antologia. Medesimo anche il principale evento al centro della narrazione: la sera della luminara di San Ranieri. Bruni, già premiata nel 2009 per il suo romanzo d'esordio  Una vita per il mare e autrice del libro di racconti Yakomoz, nel 2011, con il genere giallo si era cimentata esclusivamente come appassionata lettrice. L'ispirazione è avvenuta solo in seguito alla lettura delle due antologie di Giallo pisano. L'altro protagonista del racconto, Federico Filingeri, è invece una sua invenzione: ispettore senza alcuna scientificità di indagine è definito dalla stessa autrice "un sognatore, uno spalatore di nuvole". Oltre a Zucchini sono poi tre gli autori della nuova antologia presenti già in Giallo pisano 2.
A cominciare da Ubaldo De Robertis (unico "forestiero" ma che vive a Pisa da oltre trent'anni e si dice "orgoglioso della storia pisana"), scrittore di racconti brevi che ha in corso di pubblicazione il suo primo romanzo dal titolo L'epigono di Magellano e che ha scritto per Giallo pisano 3 "Antibois". L'incipit del racconto è incentrato sul misterioso ritrovamento del protagonista Edo Taccini da parte dell'ex (?) amante Simona Ghilardi. L'unica certezza introdotta è che Taccini per  essere "morto era morto. Non c'erano dubbi. Ammazzato da dieci coltellate".
Il secondo autore ad essere presente già nella precedente antologia è appunto Pierantonio Pardi, scrittore dei romanzi Bailame nel 1983 e Graaande...prof! nel 2005, nel nuovo libro è presente con il racconto breve ed esilarante "Psicodramma in cinque atti" dove per gli investigatori dei RIS ciò che è ovvio è anche ciò che è sicuramente da rifiutare come indizio.Un atteggiamento di cui il protagonista, Gianni Sassi, è talmente consapevole da organizzare un omicidio totalmente alla luce del sole, o quasi visto che il misfatto avviene nella notte della vigilia di San Ranieri.
Paolo Terreni, scrittore e vignettista, si è cimentato in quasi tutti i campi dello scrivere, dalle poesie al romanzo (un professore della Pisa che fu nel 2011), dai racconti brevi allr canzoni, dal vernacolo ai saggi storici (Intervista a San Ranieri nel 2004), è il terzo autore con il racconto "Il professore e lo scienziato sotto tiro" ad essere presente già nella precedente antologia. Il protagonista Giovanni Valenti, docente di giallistica all'università di Pisa, avrebbe volentieri evitato la presenza alla manifestazione annuale per l'assegnazione del Premio nazionale per le Scienze, "una palla" da sopportare "senza avere nemmeno la possibilità di fumarci una sigaretta". All'avvenimento partecipa un ospite illustre la cui incolumità  è oggetto di protezione delle forze dell'ordine presenti durante una serata che riserverà sorprese. Ma anche le successive giornate nel seguito del racconto sono disseminate di piccoli indizi  capaci di far scoprire al protagonista come, secondo un leit motiv del genere giallo, l'apparenza non corrisponda mai alla realtà.
Il racconto "Fucile carcano mod.91/38" di Renzo Zucchini, che oltre ad aver curato per Felici editore la serie Giallo pisano ha partecipato con il racconto "Macelleria" all'antologia Toscana in giallo, nel 2004, e ha pubblicato nel 2003 il romanzo noir quasi storico La pietra bugiarda, è una narrazione in prima persona. Il protagonista, Amerigo Cei, possedeva armi senza averne mai comprate e per spiegarne il motivo riporta alla memoria le vicende dell'immediato dopoguerra. Ma l'unico elemento presente del genere "giallo" non può essere rivelato perché è tutto e solo nella conclusione.
Tra le new entry rispetto a Giallo pisano 2 Francesca Padula, che ha scritto il libro umoristico Quanto pesa... nel 2005, il romanzo Alessandra, Capitano del RIS nel 2008 e la raccolta di racconti gialli e noir Tre casi per il Maresciallo Nardella nel 2009, con il racconto "La pietra e la chiave" che è "un omaggio alla periferia di Pisa" e ha per protagonista un maresciallo della stazione dei carabinieri di Riglione chiamato a fare una sostituzione di venti giorni a Volterra dove si troverà ad affrontare il caso della scomparsa di un giovane.
Arianna Taddei con il racconto breve "Un caso banale" è l'unica scrittrice neofita dell'antologia. Incentrato a Pisa nell'azienda d'impiego, il racconto ha inizio con il rituale del risveglio e dell'entrata al lavoro, attraversando un luogo "vissuto da tutti i dipendenti come il tempo che corre in un lampo". Un rituale che quel mattino è rotto dalla visione di "una barella con un lenzuolo bianco che la ricopre, che fa intravedere qualcosa là sotto".
Non è, invece, alle prime armi Sergio Costanzo, autore dei romanzi storici Io Busketo, nel 2010 e Il fiume si rise in uscita in questi giorni e nel 2011 del saggio Begunsky Center 1994 – Volontari nella follia jugoslava, presente nella nuova antologia con il racconto di ambientazione medioevale "Due lettere incompiute". Il racconto si apre nel marzo del 1154 con la scoperta dell'omicidio della signora Mingarda Buzzaccherini. L'intreccio narrativo, reso dall'alternarsi di due storie una cronologicamente anteriore all'altra, tra questa vicenda e i carteggi del  Papa pisano Eugenio III svelerà nel finale lo stretto legame tra questa donna e un famoso personaggio storico. Lo svolgimento del racconto mette in evidenza come, secondo un tema ricorrente nella narrativa di Costanzo, dietro la storia dei grandi personaggi storici vi sia sempre la storia delle persone umili. Per Costanzo scrivere su Pisa ha un valore universale e non solo locale. E' una città della cultura che per il sindaco Marco Filippeschi deve però sapersi apprezzare e "riconoscere di più" ed essere capace di "volersi più bene".
Enrico Stampacchia

venerdì 2 novembre 2012

La recensione del libro di Meucci: “Storia illustrata di Pisa al mare”

Tirrenia compie ottant’anni. Se il 21 settembre 1932 la vaporiera che collegava Pisa e Marina veniva sostituita con una nuova linea ferroviaria elettrica Pisa – Marina – Mezzapiaggia (successivamente ribattezzata Tirrenia), esattamente il 3 novembre dello stesso anno Vittorio Emanuele III nella villa reale di San Rossore firmava il Regio Decreto che istituiva l'Ente autonomo Tirrenia. Come previsto già dal decreto istitutivo l'ente rimarrà in vita per cinquant'anni esatti e si occuperà  “di apprestare un piano regolatore della zona e curarne l'attuazione mediante la cessione di aree” da edificare in una superficie di circa 1.800 ettari, dal fosso Calambrone alla via della Bigattiera. Ma il 2012 è stato un anno ricco di anniversari per le località del litorale pisano: le ottanta candeline per il compleanno di Tirrenia vanno ad aggiungersi alle centoquaranta per la ricorrenza del primo piano regolatore di Marina di Pisa, alle centoventi per quella dell'inaugurazione del trammino Pisa Marina e alle ottanta per l'anniversario dell'inaugurazione della prima colonia estiva sull'arenile di Calambrone.
Una storia, quella dell'urbanizzazione del litorale pisano, che il nuovo libro di Giuseppe Meucci Storia illustrata di Pisa al mare, Marina, Tirrenia, Calambrone pubblicato da Pacini editore  descrive e ripercorre molto bene  a partire dai grandi volani di sviluppo: le attività balneari, la fabbrica che trasformerà Marina da località di villeggiatura d'elites della Belle Epoque a città operaia, gli stabilimenti cinematografici a Tirrenia, le colonie estive di Calambrone (vedi la cronologia con i principali dati tratti dal libro di Meucci). Una storia relativamente recente: un secolo e mezzo che incidentalmente inizia proprio con l'unificazione italiana e più precisamente con il passaggio della tenuta di San Rossore dai Lorena ai Savoia che fecero trasferire sulla riva opposta dell'Arno le attività balneari dei Ceccherini (ovvero una piccola pensione, un punto di ristoro, pochi spogliatoi e qualche tenda per ripararsi dal sole) sorte negli anni Trenta dell'Ottocento sulla spiaggia della tenuta.
Una storia densa di eventi e di personaggi di rilevanza nazionale dal re Vittorio Emanuele II a Gabriele D'Annunzio, da Giovacchino Forzano e lo stesso Mussolini a Carlo Ponti e Sofia Loren. Sarà proprio Mussolini, che - come sottolinea Meucci - “vedeva nel cinema un formidabile strumento di propaganda e di controllo delle emozioni popolari”, a incoraggiare la nascita degli studi cinematografici a Tirrenia che rappresenterà uno dei primi atti della fondazione della nuova località del litorale pisano. Marina di Pisa, tra lo sviluppo della nuova fabbrica CMASA e l'erosione della spiaggia, era “ormai una nobile decaduta ma – precisa Meucci - nella pineta di Mezzapiaggia, rinominata Tirrenia il grande arenile c'è sempre, intatto, orlato da una corona di dune sulle quali crescono i pini, le tamerici, fioriscono le ginestre”. Così sia i pisani che i livornesi fecero a gara ad allungare gli occhi “su quel paradiso terrestre ancora intatto”. Da una parte il ras pisano Guido Buffarini Guidi, podestà di Pisa e segretario federale del partito (dal 1933 sottosegretario agli Interni), dall'altra il livornese Costanzo Ciano, ministro delle poste (dal 1934 presidente della Camera) e consuocero di Mussolini.
“Si dice – afferma sempre Meucci nel suo libro - che gli attriti fra i due gerarchi, provocati dalla voglia di mettere le mani per primi sulla spiaggia e sulla pineta di Tombolo, creassero non pochi problemi a Mussolini che, tirato per la giacca da una parte e dall'altra, alla fine prese una decisione salomonica. Né Pisa, né Livorno”. La scelta fu quella di istituire un terzo soggetto, l'Ente autonomo di Tirrenia, retto da un consiglio di amministrazione composto da cinque membri, due nominati dal podestà di Pisa, due da quello dì Livorno, e uno, il presidente, designato dal ministero dell'Interno. Un ente che, pur lasciando il territorio di Tirrenia e Calambrone all'interno dei confini del Comune di Pisa, avrebbe gestito direttamente lo sviluppo urbanistico della  macchia di Tombolo, compresa anche la promozione e la disciplina delle stesse iniziative private. A partire proprio dall'assegnazione a Giovacchino Forzano di quel vasto appezzamento di terreno sul quale sarebbe sorto il grande centro cinematografico di Tirrenia. E quella volta, almeno nella scelta del nome, si riuscì a compiere una sintesi tra le due città rivali: la Società cinematografica immobiliare che sarebbe nata di lì a poco sarà chiamata Pisorno.   

mercoledì 31 ottobre 2012

Milioni di Milioni Da oggi in libreria il nuovo giallo di Malvaldi.

"La scienza trova la verità, la letteratura aiuta a sopportarla". Scienza e letteratura sono le due facce inscindibili del sapere umano. O almeno dovrebbero esserlo. Se a difettare è la realtà italiana, non lo è affatto la fiction dello scrittore pisano Marco Malvaldi che pone il tema proprio al centro del suo nuovo romanzo giallo Milioni di milioni pubblicato da Sellerio. In uscita oggi sugli scaffali delle librerie in tutta Italia, il nuovo giallo sarà presentato in prima nazionale a Torino alle 19.00 presso il Cinema centrale (via Carlo Alberto 27) in collaborazione con la libreria Therese.
Il tema del romanzo, in cui la verità, tanto nella ricerca scientifica quanto nella soluzione del giallo, si disvela attraverso la sinergia tra i due protagonisti, una letterata e uno scienziato, è ispirato da un'idea della moglie dello scrittore Samantha ed emerge anche esplicitamente dalla riflessione e dalle parole di Margherita Castelli, la protagonista-letterata presentata come una "ricercatrice di filologia romanza della Scuola Normale di Pisa".
Teatro del romanzo questa volta non sarà più il BarLume nell'immaginaria località di Pineta (sul litorale pisano) e i suoi vecchietti ma Montesodi Marittimo, un paesino altrettanto immaginario dell'entroterra toscano, collocabile idealmente tra Massa Marittima e Monteverdi Marittimo, dove il numero degli abitanti (ottocentododici), che da secoli si accoppiano tra loro, è minore "rispetto al numero di galline (millesettecentoventisei) regolarmente censite in paese". La presenza della filologa sarà finalizzata a "ricostruire la discendenza e l'albero genealogico di tutto il paese a partire dall'analisi degli archivi parrocchiali" nell'ambito di un progetto che intende attribuire con certezza la provenienza del patrimonio genetico degli abitanti di un paese dove il proverbio più popolare sembra essere "le corna e chi se la piglia sono la pace della famiglia" e dove la metà della popolazione ha come secondo patronimico il nome Palla, eredità del marchese Filopanti Palla pentitosi in punto di morte di aver lasciato molti bambini senza un nome legittimo. La ricerca si trasformerà in un lavoro d'equipe insieme all'altro protagonista del romanzo, lo scienziato, Piergiorgio Pazzi, fisiologo del Dipartimento di Endocrinologia dell'Università di Pisa responsabile della parte biomedica di un progetto relativo a un paese, quale è Montesodi, che ha anche la particolarità di essere considerato "il paese più forte d’Europa". L'obiettivo della ricerca sarà anche quello di capire se le ragioni di tale forza fisica risiedano in un'anomalia genetica del Dna della popolazione.
Nella prima settimana i due ricercatori osserveranno un mondo fatto di consuetudini dominato da due gruppi familiari: il sindaco Armando Benvenuti con la moglie Viola e la ex maestra Annamaria Zerbi Palla, anziana vedova, presso la cui abitazione alloggia Piergiorgio. Un mondo in cui Piergiorgio e Margherita non troveranno nulla di cui meravigliarsi, tranne la forza fisica delle persone di Montesodi (non "la gente" sottolinea il sindaco di Montesodi volendo così prendere le distanze dal lessico politico più comune: "La gente è indifferente, le persone interagiscono. Finché uno riesce a pensare agli altri come persone, a vederle come persone riesce a non rimanere indifferente")
La svolta avviene la notte in cui il paese rimane bloccato da una tempesta di neve. Al risveglio, la mattina dopo, Piergiorgio trova la padrona di casa, la signora Annamaria, seduta sulla sua poltrona priva di vita. Ma quando il medico del paese pensa di attribuire la morte a cause naturali, il fisiologo fa notare i segni di soffocamento. Si tratta di un omicidio che esclude già in partenza la fuga dal paese dell'assassino: Montesodi è bloccato dalla neve e nessuno può essere scappato lontano. Ma tutti gli abitanti sembrano avere un alibi tranne Piergiorgio che era in camera sua da solo. Così con l'aiuto della collega Margherita il Pazzi si improvviserà investigatore. Con risultati, che ancor più della ricerca che stavano conducendo, metterà in luce tutte le potenzialità di un ottimo rapporto sinergico tra scienza e letteratura. Quello che il letterato-chimico pisano Marco Malvaldi ha sempre sperimentato su se stesso, ma con scarsi riscontri nella realtà italiana.

Enrico Stampacchia
Fonte: http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=11960

domenica 30 settembre 2012

Calabria, archeologia per la memoria. Presentato a Pisa il libro del premio Campiello 2012 Carmine Abate.

Uno scavo archeologico nella memoria, nella ricerca delle radici proprie, dei propri luoghi e della mitica città (della Magna Grecia) di Krimisa. Una narrazione scandita da un rapporto tra padre e figlio capace di far recuperare quella memoria collettiva necessaria per poter illuminare il presente. Un secolo di storia, il Novecento, dove le vicende di una famiglia calabrese, gli Arcuri, custodi di un luogo, la collina del Rossarco, e dei suoi segreti, si susseguono attraverso quattro generazioni e s'intrecciano con gli avvenimenti della grande storia. Una famiglia che nel tempo resiste ai soprusi di potenti e prepotenti, con il fascismo, con la mafia, con i signori delle pale eoliche, con personaggi che per i propri guadagni sono pronti a deturpare i paesaggi più belli.
A presentare a Pisa, martedì 25 settembre nella sala gremita del Centro espositivo San Michele degli Scalzi, nell'ambito della festa della cultura calabrese, il romanzo di Carmine Abate La collina del vento, vincitore poche settimane fa del premio Campiello 2012 (con ben quaranta voti di differenza sul secondo classificato), l'autore stesso e il prof. Salvatore Settis, ex direttore della Scuola Normale, che nel libro ha riconosciuto "memorie personali" non solo come calabrese, "un ritorno a casa", ma anche "come archeologo". Se la presenza degli antichi non è un tema nuovo nella letteratura del Sud, per Settis non era "facile tematizzare la presenza dell'archeologia". L'autore riesce a farlo "trasformando due grandi archeologi italiani, Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco in personaggi del romanzo" che nella realtà si conosceranno nel 1911. "Orsi – sottollinea Settis - insegna a Zanotti Bianco che per riscattare la miseria serve l'archeologia". Così quando scopre che in alcuni paesi della Calabria la gente era talmente povera che nel pane aggiungeva anche un po' di segatura, Zanotti Bianco utilizza il reperto: invia un pezzo di quel pane al re, al presidente del Consiglio e ai presidente di Camera e Senato.
"Un altro tema che emerge nel romanzo – afferma Settis – è il perpetuo conflitto tra archeologia e agricoltura". Tuttavia se Orsi dimostra come queste due realtà "possano convivere", ben più irrisolvibile è il contrasto "tra gli scavi e la volgarità di un villaggio turistico" perché, come scrive l'autore nel romanzo, "una città ha un'anima" che "non scompare mai". "Una città è come una persona, nasce, cresce, muore, a volte sparisce lasciando labili tracce che solo un occhio attento può scoprire".
Abate precisa che il romanzo, scritto negli ultimi mesi di vita del padre, "è nato da una promessa fatta dentro di me: raccontare queste storie che lui mi raccontava prima che queste storie scomparissero con la sua morte". Un libro che è "un atto d'amore nei confronti della propria terra" ed è "un omaggio alla parola dei padri, ovvero alla memoria". E per Abate "recuperare la memoria ha un senso solo se serve ad illuminare il nostro presente".
Enrico Stampacchia

sabato 8 settembre 2012

Intervista ad Alessandro Spinelli, autore di “Sotto tiro. San Biagio in Cisanello estate 1944. Un eccidio dimenticato”

Documenti inediti e preziose testimonianze dei protagonisti. La storia degli eccidi nazisti si arricchisce di nuove pagine che narrano i fatti, gli orrori di quel 2 agosto 1944 a San Biagio in Cisanello a pochissimi chilometri dal centro di Pisa (vedi la scheda). Due eccidi in meno di tre ore, ventitré morti su una popolazione di poco più di quattrocento abitanti: prima undici nella canonica della chiesa di San Biagio, poi altri dodici, a poche centinaia di metri, in una casa privata. Il libro di Alessandro Spinelli Sotto Tiro. San Biagio in Cisanello estate 1944 un eccidio dimenticato, pubblicato da Felici editore, ricostruisce l'andamento degli eventi di quella tragica giornata, li colloca nel più ampio contesto dei quaranta giorni, dal 23 luglio al 2 settembre, in cui il fronte si fermò a Pisa lungo l'Arno e, in quello ancora più ampio, della storia della seconda guerra mondiale.
Un libro ricco di note esplicative che possono risultare molto utili anche per gli studenti delle scuole e di una documentazione che allontana dall'uso di facili stereotipi nella ricostruzione storica. Le fonti basate sulle testimonianze dirette accentuano anche la percezione di un'indubbia verità storica: il progressivo coinvolgimento di quel territorio nel conflitto. Nel giro di pochi mesi San Biagio si trasforma da zona assolutamente periferica di un conflitto che si gioca su altri fronti (solo casualmente alla ribalta perché luogo dell'incidente aereo che provoca la morte del figlio del Duce), a zona assolutamente centrale dove il saccheggio e l'uccisione della popolazione civile diviene non una conseguenza ma l'essenza stessa della guerra. Ne parliamo con l'autore Alessandro Spinelli originario di San Biagio dove ha trascorso i primi trentacinque anni della sua vita.

Partiamo dal sottotitolo del tuo libro. A cosa ti riferisci quando parli di "un eccidio dimenticato"?
Sì, è importante chiarire. Non c'è un accusa di scarsa sensibilità nel ricordare l'avvenimento: le amministrazioni sono sempre state presenti, hanno eretto lapidi e monumenti, per non parlare dei parenti e della popolazione locale. La mia accusa si riferisce ad una dimenticanza al livello di giustizia. Nessuno ha fatto niente per sapere e per perseguire chi aveva fatto quell'eccidio. Leggendo il libro è anche facile capirlo. C'è un documento della Questura di Pisa dove si fanno nomi e cognomi. Si tratta di ufficiali e sottufficiali della Terza Compagnia delle SS. I massacri di questa Compagnia e della Sedicesima Divisione di cui essa fa parte sono iniziati a San Biagio. E' una scia di sangue che parte dall'Arno e rientra nel disegno complessivo portato avanti dalla Sedicesima  Divisione.

Da cosa pensi possa dipendere questa impunità?
Non lo so, molto probabilmente rientra nell'impunità generale nei confronti dei massacri nazifascisti. C'è anche da dire che se come italiani avessimo chiesto i criminali di guerra tedeschi avremmo dovuto dare i nostri agli stati che ce lo chiedevano. Se si leggesse di più su quanto hanno fatto gli italiani in Jugoslavia o in Grecia, per non parlare delle stragi compiute in Africa orientale durante la creazione dell'impero, ci accorgeremo che non c'era tanta differenza tra le camicie nere e i nazisti. Abbiamo allestiti campi di concentramento dove venivano messi insieme malati di tifo e gente sana. E non lo dico certo per  addolcire i crimini efferati commessi dalle SS e dalle truppe tedesche, tutt'altro...
   
Veniamo all'analisi dei fatti narrati nel tuo libro. La prima cosa ad esser messa in discussione è l'interpretazione che tendeva a parlare dell'eccidio di San Biagio e non degli eccidi di San Biagio...
Con questo libro intendo ricostruire la memoria sull'analisi dei fatti concreti e non sullo stereotipo. Finora si era sempre pensato che la strage fosse una sola divisa in due luoghi differenti, ma documenti e testimonianze ci forniscono pezzi di un mosaico che messi insieme danno un disegno diverso. Anch'io, nonostante sia di San Biagio, prima di fare questa ricerca non sapevo che i morti della canonica fossero stati ritrovati per caso otto mesi dopo. A differenza della seconda strage in casa Sbrana, a cui sopravvissero tre persone, non c'era nessuna testimonianza, altrimenti sarebbero andati a cercare i morti. Tutti sapevano che i tedeschi avevano incendiato la canonica ma non che subito prima avessero commesso una strage. Si pensava che le persone scomparse fossero state portate nei campi di lavoro. Quel che sapevo mi è così andato in frantumi. Avevo letto il libro di Vanni che raccontava minuto per minuto quel che era successo. Ciò può essere possibile solo per il secondo eccidio non per il primo dove non ci sono testimoni.

Quale sono le differenze nella ricostruzione dei fatti?
Secondo la ricostruzione di Vanni, che era poi quella dei giornali "Il Corriere dell'Arno" e "Il  Lavoratore", i tedeschi entrarono per puro caso nella canonica, vi sorpresero un gruppo di persone che aveva trovato rifugio al suo interno e le massacrarono. Si tratta di una ricostruzione poco attendibile. Risulta infatti che prima della strage nessuna delle persone uccise all'interno della canonica avesse abbandonato la propria abitazione. Se è quindi certo che nella canonica le undici vittime vi siano state trascinate, è probabile che sia stato messo in atto un minirastrellamento, che questo sia avvenuto solo nei pressi della chiesa di San Biagio e che tutte le persone trovate in strada e non nelle loro abitazioni siano state catturate. Il punto è che se sappiamo con certezza i motivi della strage di casa Sbrana, la ricerca delle donne, possiamo solo formulare ipotesi su quelli dell'eccidio della canonica sulla base delle fonti che abbiamo a disposizione.

Ce le puoi riassumere?
La prima ipotesi è quella di non aver ottemperato ai bandi di sgombero del paese. La riporto per dovere di cronaca ma non mi convince perché almeno in città non ci fu una vera e propria richiesta di sgombero, ma anzi dal primo agosto era entato in vigore un bando che imponeva a tutti gli abitanti del Comune di Pisa, e quindi anche San Biagio, di rimanere all'interno della loro abitazione ad esclusione di un periodo di due ore, dalle 10 alle 12, che è l'orario in cui è stata commessa la strage. Chi testimonia l'esistenza di un ordine di sgombero per San Biagio precisa anche che non si trattava di un bando ma di un semplice foglio in mano ad un militare delle SS.
La seconda ipotesi, a mio avviso più credibile, è quella di una rappresaglia dovuta al ritrovamento in una cantina di una corte, accanto alla chiesa di San Biagio, di un deposito di bottiglie di profumo appartenenti ad un commerciante ebreo. La sera del 31 luglio, per rappresaglia, quella casa venne bruciata ed è possibile che a distanza di trentasei ore i tedeschi siano tornati sul luogo dell'incendio con l'intenzione di dare alla popolazione un'altra lezione, ma visto che la corte era ormai spopolata abbiano rastrellato tutti coloro che si trovavano nei pressi fucilandoli poi all'interno della  canonica. L'ultima ipotesi è che le uniche due persone di cui non si conosce l'identità fossero due militari alleati sfuggiti ad un campo di concentramento. Le ipotesi sono diverse ma sembra che l'eccidio nella canonica rientri in una logica di rappresaglia, mentre il secondo, in casa Sbrana, nell'ordine del comando tedesco di fare la guerra ai civili.
 
Il tuo lavoro è rivolto anche alla storia del borgo..  Sì, ho vissuto i miei primi 35 anni a San Biagio, la mia famiglia conosceva tutti quei morti. Sono molto legato a quel territorio. Il mio obiettivo era anche quello di parlare di San Biagio, di come era una volta e di come non è più, diviso dalla viabilità costruita negli anni Ottanta, cancellato dallo sviluppo urbanistico degli ultimi trent'anni, dai grandi palazzi che soffocano le case coloniche rimaste. Parlando con le persone anziane ho cercato di rifar vivere San Biagio come era fino agli anni Settanta. Si sarebbe potuto trovare una soluzione urbanistica più consona al territorio.

Qualche proposta per le commemorazioni degli eccidi...
Ci sono due donne scomparse, portate via dai tedeschi, di cui non si è saputo nulla, che non sono mai rammentate nell'elenco delle vittime. Una, Giulia Senatori, è la ragazza che i tedeschi volevano quando hanno compiuto l'eccidio di casa Sbrana. Dopo aver ucciso il suo fidanzato e sterminata la famiglia di lui, le SS l'hanno portata via. L'altra, Anna Fascetti, qualche giorno prima della strage era intervenuta per non far portare via dai tedeschi una ragazza malata ed in cambio avevano preso lei. Sarebbe bello poter costruire una lapide che le ricordi entrambe.
Enrico Stampacchia

venerdì 31 agosto 2012

Quando il simbolo non è il diritto ma lo storto. Intervista a Francesca Bianchi, autrice del libro “Torre Superstar”

Non solo nelle cartoline o nelle insegne quale simbolo grafico dell'Italia ma in film, telefilm, spot, fiction e animazione. "Un'immagine che ci ricorda che anche far le cose storte a volte può essere glorioso" sottolinea Dario Marianelli, premio Oscar 2008, nella sua introduzione al nuovo libro Torre superstar di Francesca Bianchi pubblicato da Felici Editore con il contributo dell'assessorato al turismo della Provincia di Pisa e la collaborazione del Comune di Pisa. La protagonista è ancora una volta lei, la Torre pendente, oggetto di un bel libro, interessante e originale, che parla di Pisa attraverso le immagini della piazza dei Miracoli, del Campanile girate dalla macchina da presa e immortalate nelle scene dei film di tutto il mondo. Ne parliamo con l'autrice Francesca Bianchi, giornalista della redazione di Pisa de La Nazione, laureata in storia e critica del cinema e autrice, insieme a Luigi Puccini, del Dizionario del Cinema per ragazzi.

Da cosa è nata l'idea del libro? 
Tutto è nato come un gioco. Quando mi resi conto che l'immagine della Torre compariva quando meno te lo aspettavi iniziai ad appuntarmi tutte le volte in cui appariva e costatai che i casi erano moltissimi.

Quarantasei film veri e propri, venti di animazione, diciannove spot a cui se aggiungiamo anche telefilm, fiction, videoclip complessivamente si raggiunge la cifra di centouno. Come hai fatto a trovarli tutti?
Sono tanti anche perché sono stati presi in considerazione non solo i film girati a Pisa ma anche quelli in cui la Torre veniva solo citata, quando compariva o comunque c'era un riferimento ad essa. Ho iniziato da alcuni film ormai nella memoria come Amici miei. Mi ci sono appassionata e presto la ricerca è diventata un giochino collettivo in cui sono stati coinvolti anche amici e conoscenti che magari in singoli ambiti, come ad esempio quello dei cartoni animati giapponesi, avevano già collezionato  molte citazioni sulla Torre. Lo sprint finale l'ho avuto con la maternità. Il libro è nato insieme a mia figlia.   

La scena più famosa è certamente quella di Amici miei atto II in cui viene reclutata un'intera comitiva di turisti giapponesi per sorreggere con una fune la Torre che, dalla voce di un megafono, si sosteneva stesse per cadere. Hai avuto modo di contattare l'unico sopravvissuto del cast dei cinque attori, Gastone Moschin. Cosa ti ha colpito di più del suo racconto?
Il fatto che questo clima goliardico ci fosse realmente. Quell'episodio, la zingarata sotto la Torre, è stato significativo perché la comitiva di giapponesi reclutata non sapeva davvero che stessero girando la scena di un film. Quei turisti erano comparse inconsapevoli. Molti erano preoccupati e pensavano che realmente la Torre stesse per cadere. E' stato tutto uno scherzo,  ma anche una delle scene più riuscite del film.

Tra i film citati nel tuo libro quale sono quelli da te preferiti?
Non è facile fare una scelta. Sono molto affezionata ai film dei Taviani. Nei loro film ha recitato anche il fratello di mia nonna e sui Taviani ho scritto la mia tesi di laurea. In uno dei loro film, Padre padrone, tratto dall'omonimo romanzo di Gavino Ledda, c'è una scena girata a Pisa. Il protagonista, lo stesso autore del romanzo, cresciuto in pieno isolamento, nella Sardegna degli anni Quaranta, aiutando il padre a governare il gregge nei pascoli, arriva a Pisa perché è reclutato nell'esercito. Sale sulla Torre, si siede e guarda di sotto pensando alle parole, al loro significato, alla lingua italiana. E' l'inizio della svolta nella sua vita che lo porterà a passare da analfabeta a letterato e glottologo. E' uno dei film che ho nel cuore. Nella lista dei miei preferiti c'è poi, oltre ad Amici miei, il film Noi siamo le colonne, un gioiellino girato nel 1956 da Giuseppe D'Amico su tre amici studenti all'Università di  Pisa (Vittorio De Sica, Franco Fabrizio e Aroldo Tieri) a cui gran parte dei pisani di quella generazione sono affezionati. Se il palazzo della Sapienza, piazza Dante e i lungarni, simbolo della vita goliardica, sono spesso protagonisti assoluti dell'inquadratura, in realtà a riempire lo schermo sono i volti delle tantissime comparse pisane. Per un mese le strade di Pisa si trasformarono in un set pieno di star del cinema italiano.

...e le immagini che ti sono rimaste più impresse...
Ci sono casi particolari come Medea di Pier Paolo Pasolini girato, in parte, in piazza dei Miracoli ma dove la Torre non si vede quasi mai. I marmi bianchi partecipano al senso del film: Pisa diventa Corinto ed è il simbolo architettonico di una civiltà colta, consumistica e santa allo stesso tempo. Piazza dei Miracoli è scelta per alludere ad un periodo preciso, quello in cui comincia a svilupparsi e assumere potere la moderna borghesia. Un'immagine perturbante della Torre la si ha invece in Repulsion di Roman Polanski. Una cartolina della Torre pendente spedita dalla sorella in viaggio con l'amante accentua le ossessioni sessuofobiche della protagonista,  Catherine  Deneuve, facendo precipitare la situazione e scatenandone la follia.

"Non un campanile qualunque. Uno dei tanti in giro per il mondo. La Torre di Pisa è qualcosa che turba e attrae: perfetta e pendente allo stesso tempo, inconfondibile ed eterna nella sua assoluta fragilità. Un simbolo naturalmente fallico". Cito il testo del tuo libro per ricordare come a riguardo ci siano anche numerosi altri esempi di un utilizzo simbolico di tale immagine: dagli spot al viagra e ai condom ai numerosi film "scollacciati" degli anni Settanta...
Sì, ci sono anche molti spot, da quelli del viagra a quelli di Play Boy Italia, e manifesti con espliciti riferimenti di questo tipo. Nel manifesto della D'Addario, ad esempio, c'è il Colosseo che indica il potere politico e la Torre di Pisa il potere sessuale. C'è poi stato un periodo, dal 1968 alla fine degli anni Settanta, in cui Pisa veniva scelta come set per i film, con attori come Edwige Fenech  e Alvaro Vitali, appartenenti al genere della cosiddetta commedia erotica all'italiana, quelli che ne nel libro definisco film "scollacciati".

Graficamente l'Italia viene spesso identificata con la Torre di Pisa. Come dice Dario Marianelli nell'introduzione al tuo libro "che a diventare il simbolo universalmente riconosciuto dell'Italia dovesse essere una cosa storta, credo nessuno dovrebbe stupirsi"...
Sì, possiamo dire che la Torre, insieme al Colosseo, viene universalmente riconosciuta per rappresentare l'Italia, ne è l'immagine simbolo. Dai film di animazione a quelli indiani quando c'è un riferimento all'Italia, se non più in generale all'intero continente europeo, non manca mai la Torre di Pisa, spesso anche solo come simbolo grafico. Un simbolo molto efficace anche perché inconfondibile.

La seconda parte del libro è una interessantissima guida turistica, da te scritta insieme ad Alessandro Bargagna, Chiara Celli e Marianna Saliba, che si sofferma su particolari che l'occhio non coglie ma che la macchina da presa vedrebbe. La guida che chiami "itinerari cinematografici" ci fornisce moltissime informazioni sulla città di Pisa e anche sulla provincia...
Tantissimi stranieri quando arrivano a Pisa in piazza dei Miracoli scoprono che c'è dell'altro da vedere, che ci possono essere più itinerari. Quelli proposti nella guida sono supportati dall'elenco dei film girati in quei luoghi. C'è la necessità di spostare l'attenzione anche su tante altre cose oltre alla Torre. La scommessa era quella di far leva anche sul turismo cinematografico. Un'esperienza che se all'estero si è ormai consolidata e in Italia sta prendendo piede, a Pisa deve ancora iniziare.

A tal fine il tuo libro mi sembra possa costituire un ottimo inizio. A poco più di un mese dalla pubblicazione è sicuramente presto per fare bilanci, ma qual è la risposta che stai ricevendo?  
C'è un po' di curiosità e mi fa piacere, ho cercato di rendere il libro snello e di facile lettura. Il mio obiettivo era anche quello di accendere curiosità e fantasia e di spingere i lettori ad andare a vedere i film.  
Enrico Stampacchia

martedì 28 agosto 2012

Quella malattia ereditaria che chiamiamo invecchiamento

Sempre più longevi, ma sempre più vecchi. Nell'ultimo secolo la vita media è passata da quaranta a ottant'anni. Come è noto i fattori che provocano la scomparsa delle persone più anziane sono stati combattuti con successo. Ma se la cattiva notizia è che la velocità di progressione del processo di invecchiamento non è cambiata perché non è stata contrastata, la buona è che farlo è assolutamente possibile. La ricerca scientifica ritiene lo stile e le scelte di vita molto più influenti (70%) rispetto all'incidenza dei fattori genetici (30%). Si può quindi intervenire sulle cause dell'invecchiamento molto più di quanto ci si possa aspettare senza limitarsi ad arginarne le conseguenze esteriori attraverso il ricorso al chirurgo estetico. Palliativo utile, forse, al benessere psichico ma non altrettanto a quello fisico. Molti risultati degli studi degli ultimi vent'anni presso il Centro di Ricerca sull'Invecchiamento dell'Università di Pisa sono riassunti nel libro L'arte della longevità in buona salute pubblicato da Edizioni Ets di Ettore Bergamini, coordinatore del Centro, ordinario di Patologia generale dell'Università di Pisa e gerontologo noto a livello internazionale. "Sono questi gli studi – sottolinea Bergamini – che hanno consentito di comprendere i meccanismi di azione dei quattro principali interventi anti-invecchiamento ad oggi noti". Ovvero la restrizione dell'apporto calorico, l'esercizio fisico, l'assunzione di acidi grassi polinsaturi, l'assimilazione degli antiossidanti racchiusi in frutta e verdura. 
Secondo l'autore "i più recenti sviluppi scientifici confermerebbero le deduzioni dei filosofi antichi: tutti gli esseri viventi, nessuno escluso, sarebbero affetti da una malattia ereditaria cronico-degenerativa, che chiamiamo invecchiamento, caratterizzata dall'avere un periodo di incubazione così lungo da essere compatibile con il successo riproduttivo della specie". L'invecchiamento è da considerarsi quindi una malattia e non un fattore di rischio e le malattie associate  "segni e complicazioni che possono essere facilmente prevenuti contrastando il processo morboso fondamentale". Una definizione in linea con quella attuale di malattia e anche con l'ottimismo di fondo dell'autore: "Contro la fisiologia non ci sono cure, mentre molto può essere fatto, invece, contro le malattie innate". 
Per Bergamini "contrastando l'invecchiamento si prevengono tutte le malattie che attualmente rappresentano i peggiori flagelli dell'umanità e tormentano gli ultimi anni della nostra vita condannandoci alla fragilità, alla non autosufficienza", alla disabilità. D'altra parte l'aumento della vita media nell'ultimo secolo è stato così forte e così rapido da non poter essere determinato da mutamenti genetici. L'aumento della longevità è conseguenza solo di cambiamenti ambientali e non può essere considerato una conquista irreversibile. Ma per capire l'efficacia scientifica degli interventi bisogna aver chiaro in cosa consiste il processo di invecchiamento. Lo scorrere del tempo fisico lascia nelle cellule e nei tessuti del corpo delle lesioni. L'invecchiamento biologico è determinato sia dalla velocità con cui si producono i danni che dal funzionamento dei meccanismi di riparazione. Per vivere tutti gli esseri viventi hanno bisogno di produrre energia che in gran parte viene realizzata attraverso l'ossidazione degli alimenti che a sua volta produce radicali tossici dell'ossigeno, i ROS, i radicali liberi più diffusi (ogni nostra cellula ne produce 200-300 al secondo). Gli organismi viventi hanno sviluppato efficaci difese antiossidanti che, tuttavia, non riescono a bloccare tutti i ROS. Alcuni arrivano a proteine, lipidi e acidi nucleici provocando danni che possono, comunque, ancora essere eliminati attraverso meccanismi cellulari di riparazione. Non tutti, però. "Si calcola – afferma Bergamini – che ogni giorno giungano al nucleo di ogni cellula circa 10.000 radicali, che causano altrettanti danni (mutazioni) a carico del DNA". Di questi solo 9999 verrebbero riparati. "Ogni giorno si aggiunge ad ogni nostra cellula un danno non riparato del DNA, cioè una mutazione stabile; se sono colpiti geni che controllano la generazione cellulare potrà svilupparsi un tumore" altrimenti "la cellula potrà morire per apoptosi e, con la sua scomparsa, contribuirà a ridurre la funzione dell'organo e, quindi, all'invecchiamento". Così i quattro interventi per ritardarlo possono essere suddivisi in due gruppi sulla base del momento in cui agiscono. Mentre il controllo dell'apporto calorico, che opera a livello dei visceri, e l'esercizio fisico, che agisce su cuore e muscoli scheletrici, consentono la sostituzione delle componenti cellulari degradate attivando il processo di riparazione,  gli antiossidanti presenti in frutta e verdura, che agiscono in modo preventivo, e gli acidi grassi polinsaturi, che intrappolano i radicali liberi, proteggono dal danno ossidativo rendendo così le cellule più resistenti.
In un'epoca in cui sempre più spesso il medico riesce a evitare la morte ma non a restituire la salute, questo libro di divulgazione scientifica può rappresentare un valido contributo di conoscenza. Il futuro certamente non sarà del tutto nelle nostre mani, ma fa piacere pensare che, attraverso anche le nostre scelte di vita, lo possa essere il più possibile. Senza, però, illudersi troppo.
Enrico Stampacchia

martedì 31 luglio 2012

Città degli orti. Intervista al vicesindaco Paolo Ghezzi sull'esperienza pisana, modello per tutta l'Italia

Il cibo come “occasione per parlare di geografia, storia, biologia”, l’alimentazione come “materia di studio completa e complessa in cui la salute del pianeta è strettamente legata a quella dell’individuo”. Nel presentare l’ultimo numero di Locus, la rivista trimestrale di cultura del territorio edita da Felici editori sul tema Pisa, città degli orti, Carlo Petrini, fondatore e presidente internazionale di Slow Food, si riferisce al progetto ”Orto in condotta” che ha ormai superato le quattrocento esperienze in Italia. Un percorso a cui, dopo aver già realizzato in proprio il progetto un “orto in ogni scuola”, il Comune di Pisa ha aderito. Un’esperienza unica in Toscana ma anche in Italia, per un così elevato numero di orti nelle scuole tutti in ambito cittadino. Ne parliamo con Paolo Ghezzi, vicesindaco del Comune di Pisa con delega anche a parchi, verde pubblico e cura della qualità urbana.

Negli ultimi anni quando si parla di educazione alimentare si tende spesso a fare riferimento solo alla quantità di calorie. Non si parla quasi mai del legame tra cibo e identità culturale, poco di qualità e di sapori. Per Slow Food il progetto “Orto in condotta” rappresenta uno strumento didattico per conoscere il territorio i suoi prodotti, i suoi legami con le stagioni, le sue ricette. Come è stato introdotto nel territorio comunale di Pisa?
Nell’anno scolastico 2007-2008 venne ideato dal Comune di Pisa il progetto “un orto in ogni scuola”. Da subito furono raccolte decine di adesioni da parte delle scuole pisane. I 35 orti scolastici, dopo un’adeguata fase di formazione, furono realizzati dalle maestre e dai bambini delle scuole pisane con il supporto logistico dell’azienda agricola Pacini e della Cooperativa Terra Uomini e Ambiente e con il supporto formativo di Slow Food. Oltre ad imparare, zappettare, annaffiare e raccogliere i frutti del proprio lavoro, nel primo anno i bambini realizzarono anche migliaia di biglietti di auguri colorati messi in vendita per acquistare alberi da frutto da piantare nel giardino della propria scuola. L’anno successivo il progetto degli orti pisani si è evoluto ed è stato accolto nel progetto “Orti in condotta” della rete nazionale Slow Food formalizzata con la firma di un protocollo alla presenza di Carlo Petrini nel corso del convegno “Mai fragole a dicembre”. Un ingresso prorompente, tanto da costituire ancora oggi la più capillare diffusione di orti in ambito scolastico di tutta Italia.

Qual è stato il procedimento per realizzare gli orti?
C’è stata una naturale evoluzione nel tempo. Con sopralluoghi mirati nei giardini scolastici sono stati individuati i luoghi più adatti per accogliere l’orto prevedendo l’esecuzione in cassette nel caso in cui le condizioni non consentissero di utilizzare direttamente il terreno naturale. Alle classi sono state assegnati kit di attrezzi e semi per dedicarsi all’attività di orticultura. In alcune scuole sono stati distribuiti biocomposter per il trattamento di rifiuti organici, in altre sono state seminate windflowers per creare un prato di fiori spontanei. Percorsi specifici sono stati previsti per i racconti degli ortolani anziani, per il recupero di materiali e per il risparmio di risorse. L’attività è stata arricchita con temi ambientali e con percorsi proattivi per richiamare le farfalle nei giardini delle scuole. Direi un grande successo di un progetto semplice. Vedo, infatti, un'inversione di tendenza: per decenni c’è stato il fuggi fuggi, l’orto era sinonimo di arretratezza, di povertà. Ora si sta riscoprendo che la ricchezza è mantenere il rapporto con il territorio.

Un messaggio anche sul piano educativo…
C’è una filiera di valori che cerchiamo di recuperare anche, e soprattutto, con i bambini delle scuole. Uno dei messaggi principali che cerchiamo di trasmettere è che tutti devono e possono avere un ruolo nel processo di cura dell’orto: proprio come dovrebbe accadere nella società civile. Chi zappetta la terra ha bisogno, per vedere un buon risultato, di chi sparge i semi, di chi toglie le erbacce, di chi ogni giorno fornisce un po’ d’acqua. E’ una lovoro di gruppo e, se guardiamo bene, un ruolo non è più importante dell’altro: per arrivare in fondo ogni attività è indispensabile e va fatta con cura per non vanificare gli sforzi di tutti. E tutti devono avere rispetto del lavoro altrui. Questo vale nell’orto ma, più in generale, dovrebbe valere nella società. Non esiste una società che possa definirsi equilibrata e che aspiri a una elevata qualità di vita se non è in grado di valorizzare il lavoro di tutti. Siamo legati al ruolo che ciascuno di noi svolge. E’ una catena di gesti tutti ugualmente importanti. Non esiste un lavoro più dignitoso di altri e per un risultato finale di qualità difficilmente ci si può ritenere autosufficienti.

A cosa è dovuto un così grande successo?
Forse allo stimolo dell’immaginazione, ma soprattutto alla semplicità della proposta e ai tanti significati che essa racchiude. Dall’insegnamento ai bambini al ciclo delle stagioni e dei frutti che la terra mette a disposizione nei diversi periodi all’impegno per veder crescere i risultati del proprio lavoro; dal rispetto per l’ambiente comune all’educazione con esperienze dirette e ad un corretto ciclo di alimentazione. In generale l’attività nelle scuole vuole essere uno stimolo alla capacità di valutazione autonoma del bambino in controtendenza e da contrapporre alle infinite sollecitazioni mediatiche e di costume.

Sono nate anche le “Ortimpiadi”…
Sì, come progetto in collaborazione tra il Cus Pisa e l’associazione Orti pisani per promuovere la sinergia tra il piacere del movimento e dello sport ed il piacere di mangiare sano e buono. Dopo una prima edizione al Cus Pisa le Ortimpiadi sono state organizzate nel 2011 anche sul Ponte di Mezzo chiuso, per l’occasione al traffico, e reso verde con prati e piante. Si tratta di gare a carattere ludico-sportivo che coinvolgono sia le competenze fisiche sia quelle di orticoltura ed alimentazione dei partecipanti. Il progetto prevede oltre alla giornata finale con le gare, la realizzazione di orti presso la sede del Cus Pisa o in altre zone della città; la realizzazione di un percorso formativo di educazione allo sport e di educazione alimentare, collegato alla realizzazioni degli orti nelle scuole cittadine. Si impara giocando con “la corsa del cavolo”, con “rubaravanello” e con “il lancio della patata”.

Il Comune di Pisa ha anche istituito una giornata interamente dedicata ai temi dell’Orticultura?
Sì, con una delibera del 2010 è stato istituita, nella giornata internazionale dedicata all’Africa, il 25 maggio, una giornata che Pisa dedica ogni anno ai temi dell’orticultura coinvolgendo i bambini e le loro famiglie.

Dai risultati del progetto un orto in ogni scuola e poi un orto in condotta si è fatto carico di una ambiziosa iniziativa: promuovere l’educazione e la formazione agro-ecologica in alcune scuole della città brasiliana di Corumba con cui Pisa ha sottoscritto un patto di amicizia e solidarietà. Che risultati avete ottenuto?
C’è stato un percorso parallelo a Pisa e in Brasile con modalità e tempistiche diverse. Ciò aiuta i bambini e loro famiglie a comprendere meglio che ciò che cresce a Pisa non può crescere nello stesso momento a Corumba e che ogni territorio vive il suo tempo e la sua specificità alimentare che va preservata e valorizzata. Nello specifico, Corumbà è una città che vive sul piano sociale una situazione drammatica. L’obiettivo del progetto è quello di spezzare la catena che lega giovanissimi e criminalità attraverso la promozione all’interno delle scuole di attività di formazione relativa al settore agro-ecologico. In questo modo le famiglie, spesso con un bassissimo reddito, possono beneficiare direttamente delle attività del progetto. Nelle proprie abitazioni, gli orti possono divenire una fonte di sostentamento ed autoalimentazione. Il progetto ha avuto come scopo anche quello di mettere in rete i bambini delle scuole pisane con quelle delle scuole brasiliane. I contatti via web hanno costituito un ulteriore elemento di arricchimento del progetto.

Il Comune di Pisa ha redatto un disciplinare per potenziare la pratica degli orti sociali anche in città e non solo in alcune periferie. Finora l’aumento degli orti in città è stato particolarmente significativo?
Il disciplinare è stato redatto attraverso un lavoro lungo e multidisciplinare coinvelgendo direttamente anche gli ortolani al fine di razionalizzare, prima, le esperienze già realizzate come quella de I Passi e soprattutto del Cep e di crearne, poi, delle nuove. L'obiettivo è quello di dotare ogni circoscrizione di una realtà come quella esistente al Cep. Vanno individuate le aree ottimali e creati percorsi di investimento sociale ed economico. Per realizzare l'intero progetto ci vorrà la prossima consiliatura. I prossimi orti sociali previsti dovrebbero essere nella zona di via Norvegia anche se stiamo conducendo, con il contributo di Regione e CNR, uno studio per la localizzazione ottimale di queste aree anche da un punto di vista pedologico e della qualità dei terreni.

C’è chi sostiene che bisognerebbe superare l’attuale normativa che prevede la realizzazione di orti urbani nelle sole aree individuate come aree agricole urbane perché potrebbero essere realizzati anche nelle aree individuate come aree a verde attrezzato. Che ne pensa?
E’ un discorso molto complesso e delicato, è un’idea suggestiva ma effettivamente difficile da concretizzare nella sua realizzazione pratica. Bisogna far convivere esigenze diverse e c’è un limite oltre il quale è difficile trovare un equilibrio. Il problema delle responsabilità e di chi si prende cura degli spazi non è secondario e difficilmente lo si può delegare alla buona volontà di qualche volontario. Già in passato i percorsi non sufficientemente controllati hanno dato risultati deludenti e molto lontani anche dalle finalità per cui erano nati.

Siamo abituati agli orti come caratteristica della campagna o dell’estrema periferia spesso con recinzioni molto meno curate rispetto a quelle dei giardini. Magari per gli orti in città potrebbero essere maggiormente valorizzati elementi di arredo urbano come ad esempio delle belle recinzioni per le quali, a dire il vero, Pisa non si è mai particolarmente distinta.
Questo è un passaggio culturale che potrebbe davvero generare una svolta. La cura dell’orto deve recuperare la capacità di trasmettere sensazioni visive ed emozioni. Un orto curato, nella disposizione degli spazi e nella qualità degli arredi, descrive uno stato d’animo, un atteggiamento mentale, un rapporto sereno con quel che si sta facendo. L’orticultura può risultare anche un percorso efficace per recuperare serenità e per favorire socialità. L’estetica e la pulizia del luogo possono diventare, in questo senso, uno specchio eloquente del proprio equilibrio interiore e del piacere di aprirsi agli altri offrendo il meglio di sé.
Enrico Stampacchia 

mercoledì 13 giugno 2012

Incontri di un cronista delle lettere Presentato il nuovo libro del gionalista letterario Giovanni Nardi

Una galleria di ricordi e di emozioni, di fuori scena raccontati da un “cronista delle lettere”. Icone della letteratura quali Jorge Amado, Tiziano Terzani, Roberto Ridolfi, Vargas Llosa, Enzo Biagi, Adonis, Karen Blixen, Tomas Tranströmer conosciuti nel corso della lunga carriera professionale di giornalista e rivelate nel loro genio e nella loro dimensione umana. Nobel, quasi Nobel, non Nobel. Incontri di un cronista delle lettere è il nuovo libro di Giovanni Nardi,  tra i più stimati giornalisti letterari, per molti anni responsabile centrale dei servizi culturali del quotidiano  La Nazione, dopo averne diretto, dal 1964 al 1982, la redazione pisana. Pubblicato da Felici editori, il volume è stato presentato (per la seconda volta a Pisa) nell’ambito delle manifestazioni del Giugno pisano da Marco Santagata, critico letterario e docente all’Università di Pisa, Silvia Panichi, assessore alla cultura del Comune di Pisa, Mauro Del Corso, presidente associazione amici dei musei,  Renzo Castelli, giornalista, e Athos Bigongiali, scrittore e giornalista.

Come scrive Athos Bigongiali nella prefazione è “un libro confidenziale, un diario intimo, un’amabile  confessione di vicende professionali e di vita vissuta a fianco di tanti libri e dei loro autori”. Per Bigongiali “ogni incontro è una sorpresa. E’ il regalo inaspettato di una curiosità, di un aneddoto, di un episodio particolare e inedito”. Incontri narrati non come “mere cronache” ma come occasioni “per ulteriori riflessioni, approfondimenti, ricerche e veri e propri esercizi di memoria” senza “mai un pettegolezzo però”. Leggendo il suo libro, Nardi ci dà un esempio di quel che dovrebbe essere il mestiere di cronista. Un esempio che troviamo sempre meno frequentemente sfogliando pagine di giornali molto piene di gossip, ma poco di informazione su fatti, vicende e personaggi. Sul tema del giornalismo Nardi racconta nel libro le sue conversazioni con Terzani che sosteneva: “è un mestiere, ma non come tanti. Non è una cosa che fai andando a lavorare alle 9 del mattino e uscendone alle 5 del pomeriggio; è un atteggiamento verso la vita che muove dalla curiosità e finisce per diventare servizio pubblico: è missione. E senza missione non è un mestiere da fare”. In Italia, invece, Terzani avverte “una contiguità, un ossequio, un servilismo nei confronti del potere che sono il contrario di quel concetto di ‘quarto potere’ che dovrebbe caratterizzare il lavoro del giornalista“. 

Secondo Santagata è significativo il sottotitolo del libro “incontri di un cronista delle lettere” perché “Nardi è stato il cronista principe di questa città e anche quando è passato alle pagine culturali non ha smesso di essere cronista, un cronista della cultura” che nel raccontare la storia degli altri “si astiene da giudizi di valore”. Così come “si astiene da graduatorie e classifiche” perché non si può “sezionare e incasellare la letteratura se la letteratura è vita”. I personaggi sono “quasi tutti accomunati da essere uomini di mondo”, girovaghi a volte esiliati per motivi politici ma mai “in una condizione di sradicamento”. Si può viaggiare per il mondo, “non avere una patria ma avere lo stesso un’idea di appartenenza”. Per Santagata la fedeltà ai luoghi “presuppone un’altra fedeltà che è ancora più forte, quella della memoria che rappresenta un tema “molto presente nel libro”. Attraverso le storie di quei personaggi Nardi “disegna un suo autoritratto”, si nasconde “dietro gli altri per dire quel che pensa”. Fa il cronista, mestiere sempre più spesso dimenticato.    
Enrico Stampacchia

lunedì 11 giugno 2012

L'arte e la scuola che non c'è. Un libro racconta l'esperienza di Ilario Luperini

Motivo profondo della comunicazione, ricerca intorno ai significati e ai valori delle cose, momentanee verità non vincolate alle esigenze strumentali del mercato e della moda. La riflessione sull’arte nelle sue molteplici manifestazioni e soprattutto sull’importanza dei valori vformativi dell’educazione artistica è al centro del nuovo libro di Ilario Luperini L’arte e la scuola che non c’è pubblicato da Edizioni Ets e presentato giovedì 7 giugno nella sala, gremita per l’occasione, del Consiglio dei Dodici in piazza dei Cavalieri da Lucia Tongiorgi Tomasi e Alberto Batisti con l’introduzione del presidente del consiglio comunale di Pisa, Titina Maccioni, del dirigente scolastico del Liceo “F. Russoli” di Pisa, Gabriella Giuliani, e con il saluto del sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, del presidente Fondazione Cavalieri di Santo Stefano, Umberto Ascani, del presidente dell’Associazione Amici dei musei e dei monumenti pisani, Mauro Del Corso.

Preside per ventitré anni, dal 1983 al 2006, dell’Istituto Statale d’Arte (oggi liceo) Russoli di Pisa, che quest’anno festeggia il cinquantesimo anniversario della sua fondazione, Luperini nel suo libro riesce molto bene a tenere insieme i risultati di questa esperienza con una riflessione sull’arte e sulle caratteristiche che dovrebbe avere un buon sistema formativo, quella scuola che in Italia non c’è, o almeno, ci piacerebbe poter dire, non c’è ancora.

Luperini particolarmente attento agli aspetti pedagogici, parte “da una constatazione: la prima componente che entra in causa nell’arte del disegno è la mano”. Sebbene vi siano “prove inconfutabili sul fatto che la nascita e lo sviluppo dell’intelligenza umana” abbiano avuto origine con la trasformazione degli arti superiori, “si è sempre ignorato il ruolo cognitivo che le attività della mano svolgono”. Per Luperini “sembra ormai accertato” che, nel processo di apprendimento, “il percorso verso l’autonomia critica parte” dal “sapere come”, quello operativo-performativo, e arriva al “sapere perché”, quello di una conoscenza di carattere esplicativo, attraverso il “sapere che”, ovvero quello di una conoscenza di tipo descrittivo.

Nel libro di Luperini si dimostra come “la questione dei valori formativi dell’educazione artistica” possa risolversi “solo a condizione che non sia mai scisso il momento storico-critico da quello operativo”. Una formazione incardinata sulla creatività, che “non deriva solo dall’intuito ma anche da conoscenze sistematiche” necessarie a gestire la progettualità, “non può che basarsi sull’attività produttiva, cioè sulla partecipazione attiva alla produzione culturale e non solo sulla semplice accettazione, seppur critica, di elaborazioni, ricerche e scoperte sviluppate da altri”. Potenzialmente la scuola artistica mette gli allievi in una condizione di immaginare, progettare, “trasformare un’idea in un oggetto”.

Luperini passa anche in rassegna le esperienze realizzate sul territorio. L’autore osserva che se i lavori dei ragazzi hanno dimostrato “estrema originalità di approccio e grande varietà di realizzazione”, il motivo dipende dal fatto “che durante tutto il percorso sono sempre stati invitati a far riferimento all’esperienza concreta, all’osservazione consapevole e analitica e a come la propria esperienza entrava in relazione” con quella degli altri “e con gli spazi e le realtà circostanti”.
 
“L’istituto d’arte Russoli – ha sottolineato Filippeschi – rappresenta un’esperienza di sperimentazione nazionale. Pisa è la città delle esperienze di riferimento nazionale nel sistema formativo. Un patrimonio costruito dall’impegno culturale e civico. Questo libro è un manuale dell’impegno: ci sono le idee e ci sono le esperienze”.
 Enrico Stampacchia

venerdì 8 giugno 2012

Saint Gobain 1889-1983: un secolo di industria, lavoro e società a Pisa nel libro di Renato Bacconi

La fabbrica, la città, il lavoro: la storia di un insediamento produttivo, ma anche la storia del contesto in cui si sviluppa. Renato Bacconi, già segretario della Camera del Lavoro di Pisa dal 1981 al 1990, una lunga carriera di militanza sindacale, ha pubblicato in questi giorni per la casa editrice della Biblioteca Serantini il libro Saint Gobain. Un secolo di industria, lavoro e società a Pisa (1889-1983) che sarà presentato venerdì 8 giugno alle ore 17.30 presso la CGIL-Camera del lavoro provinciale da Gianfranco Francese, Cgil, Michele Battini, Cristiana Torti e Mauro Stampacchia, dell’Università di Pisa, Paolo Ghezzi, vicesindaco del Comune di Pisa, oltre che dall’autore.
Presente a Pisa sin dall'ultimo decenio dell'Ottocento, dagli anni cioè del vero decollo industriale italiano, la Saint Gobain, la fabbrica per antonomasia della città, è una fabbrica francese, le cui origini, seppur con un nome diverso, risalgono al XVII secolo. L’insediamento produttivo porta a Pisa metodi di lavoro in grado di superare quello del “maestro soffiatore”, si avvale di tecnologie all’avanguardia e cresce rapidamente nel suo insediamento di Porta a Mare diventando un luogo essenziale della industrializzazione pisana.
Pisa è città sede, come scrive Bacconi, di "un composito e esteso universo sociale formato sia dal popolo dei mille mestieri, instabili e precari, insediato nelle aree più degradate del centro storico, sia da una larga parte degli strati artigianali e dei nascenti nuclei di lavoratori di fabbrica". Storici come Lorenzo Gestri, Umberto Sereni, Alessandro Marianelli, Franco Bertolucci hanno tracciato il quadro: anarchici e repubblicani che esprimono il naturale ribellismo, profeti del "liberato mondo", socialisti che lavorano alla organizzazione del lavoro e del sindacato. Bacconi, scrivendo la storia di un secolo, ha il pregio di presentare la materia in forma divulgativa, ma non priva di spunti analitici importanti. L’autore indaga a fondo tutti i contesti nei quali si situa la vicenda della Saint Gobain, raccontando insieme la storia di una industria, e di una città, del mondo del lavoro e della società cittadina, con un contributo prezioso allo studio della storia di Pisa nel Novecento.
Scrive nella prefazione Maurizio Antonioli: "raccontare la storia della Saint Gobain a Pisa significa ripercorrere le tappe principali dello sviluppo industriale italiano e della lotte per la conquista dei diritti dei lavoratori". Renato Bacconi è stato protagonista e testimone delle vertenze sindacali della Saint Gobain del secondo dopoguerra, ma non scrive solo nella modalità della memoria, abbraccia piuttosto gli strumenti della ricerca storiografica, esamina documenti e archivi, racconta vicende e passaggi essenziali, costruisce un ampio ed efficace affresco. La sua partecipazione al mondo del sindacato e del lavoro dà alla sua narrazione la capacità di tratteggiare sentimenti e comportamenti del mondo operaio, dall'interno di quel mondo.

lunedì 4 giugno 2012

Officine della follia Il libro sul manicomio di Volterra

Addestrare al lavoro ripetitivo, ammansire, ma spesso anche assopire ogni istinto vitale rendendo incapaci di opporre resistenza ai voleri altrui, “di esprimere i propri malesseri attraverso parole, suoni o urla”. L’obiettivo della “progettazione di un uomo nuovo” propria dei fondatori del  moderno paradigma psichiatrico e dell’istituzione manicomiale “veniva in parte raggiunto”. Un uomo nuovo, un uomo “istituzionalizzato” che era “però spesso ridotto ad un simulacro di se stesso”. Docile, ma di una “docilità che non è neppure in grado di esprimere valori positivi”, di una “docilità che equivale al non essere”.
Il libro Le officine della follia – Il frenocomio di Volterra (1888-1978) di Vinzia Fiorino pubblicato da Edizioni Ets sarà presentato lunedì 4 giugno alle ore 17.30 presso la sala consiliare dell’Amministrazione provinciale in piazza Vittorio Emanuele da Silvia Pagnin, assessore alla Cultura della Provincia di Pisa, Massimiliano Casalini, consigliere provinciale, Roberto Cappuccio, psichiatra, psicoterapeuta e con la partecipazione della stessa autrice.
Il volume non si limita a denunciare le finalità di una logica manicomiale più interessata alla custodia, e a mantenere alto il numero dei degenti, che alla cura e al reinserimento. Non è la fotografia di una situazione statica. Ripercorre i novant’anni di storia del manicomio di Volterra e ricostruisce in modo dettagliato le evoluzioni (e anche talora le involuzioni) e le caratteristiche originali che l’hanno contraddistinto, dalla sua nascita come cronicario, alle esperienze d’avanguardia negli ultimi anni precedenti alla dismissione. Frutto di una ricerca accurata, proposta dall’autrice alla Provincia di Pisa e pubblicato con il contributo della stessa, il libro descrive molto bene l’esperienza della struttura manicomiale di Volterra in rapporto anche ai modelli culturali che l’hanno legittimata, ma anche le storie, i singoli casi umani di chi vi ha abitato.
L’ergoterapia, la terapia del lavoro  ha contraddistinto la storia del manicomio di Volterra.
Introdotta da Luigi Scabia, direttore del frenocomio per trentaquattro anni a partire dal 1900, la terapia del lavoro prevedeva che all’interno del maniconio-villaggio open door, “una sorta di piccola città indipendente fondata sul contributo lavorativo di tutti” dove poter girare liberamente “nei viali così come nelle strade della cittadina volterrana”, si coltivasse, si fabbricasse, si producesse. Il lavoro è parte del progetto terapeutico e le esperienze lavorative si estenderanno anche al di fuori della struttura (basti pensare agli scavi che negli anni Cinquanta “porteranno alla luce l’antico teatro romano di Volterra”).  
Il termine “officine”, significativamente inserito nel titolo dall’autrice, ha, però, anche un altro significato metaforico. L’obiettivo per incrementare la popolazione, che nel 1940 raggiungerà il suo massimo con 4547 presenze, era quello “di accaparrarsi fette sempre più importanti di un incredibile mercato, quello dei soggetti in esubero dei vari manicomi italiani”.
Una politica fatta di convenzioni con il maggior numero di Province italiane determinerà l’afflusso di pazienti da aree lontane. A prevalere saranno le ragioni istituzionali prima ancora di quelle determinate dal dibattito scientifico dell’epoca. Se in precedenza l’esigenza dei legami affettivi e delle relazioni tra le famiglie e le istituzioni manicomiali avevano primeggiato, “per i soggetti che giunsero a Volterra in seguito a convenzioni” le mediazioni con le famiglie sarebbero state molto esigue o del tutto inesistenti.
Tuttavia dopo la lunga direzione Scabia, negli anni Trenta le esperienze terapeutiche successive si allineeranno con quelle in uso sul resto del territorio nazionale durante il periodo fascista: malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, lobotomia. Nel secondo dopoguerra l’ergoterapia continuerà ad essere praticata, “ma subirà un notevole declassamento: da pratica terapeutica principale” sarà indicata “solo nella fase precedente alle dimissioni, quindi come una sorta di terapia-cuscinetto che prelude il reinserimento del paziente nella vita civile”. Oltre a quelle scioccanti, già in auge, le nuove vere terapie saranno quelle farmacologiche.
Le evoluzioni più significative si affermeranno a partire dagli anni Sessanta quando inizierà ad emergere il tema del reinserimento dell’ex degente, ma sarà solo nel decennio successivo che muterà completamente la concezione stessa del malato: “i quadri diagnostici cominciavano a restare sullo sfondo , mentre le indagini psicologiche, le relazioni familiari, le condizioni materiali acquistavano un inedito rilievo”. Considerare i ricoverati non più oggetti di controllo, ma soggetti di relazioni sociali e di bisogni “ha significato sovvertire lo spazio manicomiale”.
La stessa ergoterapia iniziò ad essere respinta perché non era concepita come strumento dell’affermazione della propria personalità, un mezzo per fare apprezzare il proprio talento.
Il lavoro per il lavoro, invece, contribuisce solo ad accentuare un processo di disgregazione e a ridurre gli stessi internati, ancora una volta, a informe massa operativa. 
“Il riconoscimento del malato come soggetto di autodeterminazione è stata la più importante delle rivendicazioni portate avanti dal movimento che in qualche modo faceva riferimento a Franco Basaglia” e che nel 1975, tre anni prima dell’approvazione della legge 180, porterà anche a Volterra alla trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica. 
Enrico Stampacchia 

Fonte: http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=10621